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18 dicembre 2013 3 18 /12 /dicembre /2013 18:11

 

 

 

 

http://www.lemonde.fr/idees/chronique/2010/05/22/forse-non-e-troppo-tardi-racconto-autobiografico_1361419_3232.html 

 

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Era quasi mezzogiorno, ma dalle imposte filtrava un chiarore senza alcuna vivacità. Il ragazzo si era svegliato da poco, ma indugiava ancora tra le lenzuola. Nella penombra, con gli occhi spalancati, lui non aveva alcun pensiero preciso, stava solo cercando di acciuffare qualche brandello di realtà nei deboli contorni delle cose sparse attorno a lui. Lo faceva nel tentativo di ricomporre quel minimo di coscienza necessaria anche alle più elementari operazioni quotidiane. Un processo relativamente lento, una sorta di riscaldamento, tanto più necessario quando non aveva riposato bene, per raccapezzarsi dopo il risveglio.

Il divano-letto su cui aveva dormito era, infatti, piuttosto scomodo, oltre che brutto nell'aspetto. Vecchio e scolorito, era ricoperto di una stoffa scadente e ruvida di un grigio scuro di cattivo gusto. Nella stanza c'erano anche una scrivania, una se dia, una grande libreria disposta contro la parete e in un angolo, per terra, un giradischi portatile. Le pareti, ancora bianche d'intonaco, erano nude e dal soffitto pendeva una lampadina polverosa. Nessuna di quelle cose gli apparteneva e quella era solo la stanza in cui dormiva. Suoi erano solo alcuni libri di scuola, qualche disco, una raccolta di francobolli, che fu abbandonata il giorno in cui cominciò a piacergli sul serio una ragazza, un vecchio orologio e l'accendino.

Dopo essersi alzato, per prima cosa il ragazzo entrò in bagno. Poi, strofinandosi la faccia con l'asciugamano, passò in cucina, senza nemmeno vestirsi, perché era sua abitudine mettere il caffè a bollire, per cominciare. Anche qui l'illuminazione, quando mancava la luce del giorno, era modestamente assicurata da una lampadina appesa al soffitto. Conteneva un tavolo in formica di aspetto assai modesto e due sedie dello stesso tipo. Le poche stoviglie erano tutte a scolare, mentre qualche pentola e le provviste si trovavano nell'unico mobiletto appeso alla parete.

Il ragazzo alzò un poco la tapparella, cercò la macchinetta del caffè e accese il gas. Aveva idea di bere solo quello. Più tardi, una volta uscito, avrebbe mangiato qualcosa di sbrigativo in giro. E, mentre il caffè cercava faticosamente di bollire, tornò in camera. Trovò i pantaloni e se li mise. Quindi cercò una camicia pulita nell'armadio disposto nel corridoio e tornò in cucina solo quando gli giunse lo sbuffo della macchinetta del caffè. Sulla porta si fermò e, questa volta, con la mano cercò l'interruttore bianco e accese.

In quel momento si accorse delle quattro scatolette di cartone azzurro e dei relativi flaconi di vetro disposti disordinatamente sul tavolo. Si trattava della confezione di un medicinale che conosceva bene. Suo padre vi ricorreva, per la verità molto raramente, quelle sere che non riusciva a dormire. Spesso, durante l'ultimo inverno, insieme rientravano molto tardi dalla città. Quelle sere fredde, umide e piene di nebbia erano anche tristi. Ciascuno proveniva da una scuola serale diversa e c'era stato per ragioni opposte, e ora cercava la compagnia dell'altro. Affamati e infreddoliti, ambedue avevano anche voglia, nonostante l'ora, di una pastasciutta calda unta d'olio e odorosa d'aglio. Solitamente poi, finito di mangiare, indugiavano fumando e parlando insieme. A volte brindavano addirittura a qualcosa con del vino. Così la stanchezza cresceva, ma spesso il sonno scemava.

Il ragazzo poteva dormire il mattino dopo, ma suo padre avrebbe dovuto comunque alzarsi e quindi sei o sette ore di sonno gli erano necessarie. Per questo, se l'uomo non riusciva diversamente, ricorreva alle pillole della scatola azzurra. Naturalmente una scorta come quella disposta sul tavolo era inutile ed eccessiva.

Rimasto sulla porta il ragazzo si mosse solo quando fu necessario spegnere il gas perché il caffè non si versasse. Si avvicinò al tavolo e senza sedersi esaminò i flaconi. Dovevano esserci trenta pastiglie in ogni flacone e i quattro flaconi erano vuoti.

Il ragazzo si precipitò verso la stanza dove era sicuro di trovare suo padre, ma la porta era chiusa a chiave e la chiave si trovava nella toppa. Così tornò in corridoio e cercò di aprire l'altra porta. Anche questa era serrata, ma stavolta senza chiave inserita. Poiché tutte le serrature dell'appartamento erano uguali, e lui lo sapeva bene, il ragazzo si procurò un'altra chiave, accese la luce e aprì.

L'uomo avrebbe compiuto trentanove anni di lì a qualche mese. Era un po' appesantito, perdeva i capelli e aveva l'abitudine di tingerli sulle tempie, ma non si poteva dire che fosse grasso. Sdraiato sul letto coi vestiti addosso dormiva profondamente, ma, mentre avrebbe dovuto farlo, non russava. Il ragazzo lo trovò così e, quando cercò di sollevarlo e di scuoterlo, capì che l'uomo respirava ma non riusciva più a svegliarsi. Su di una se dia, di fianco al letto, sotto un portacenere di latta, c'era un biglietto. Alcune parole per lui incomprensibili, il nome di una donna, e alla fine l'unica frase davvero inequivocabile: « Il mio ultimo pensiero va ai guerriglieri vietnamiti che anche in questo momento muoiono nelle risaie ».

 Il ragazzo aveva ancora le chiavi di casa in mano mentre correva. Le scarpe con la para senza le calze erano scomode per farlo: s'appiccicavano alla pianta dei piedi e pareva che volessero segarli sotto le caviglie. Il cielo, la strada, le case, tutto era grigio e umido e la camicia non-stiro era una fregatura: si bagnava e grattava la pelle.

La farmacia all'angolo stava per chiudere, ma lui riuscì ad entrare. Un cliente stava per essere servito ed era in attesa, ma il ragazzo quasi non lo vide. Si rivolse all'uomo con il camice:

- Lei è un dottore? - disse.

Questi stava cercando un medicinale in un cassetto e gli voltava le spalle. Quando si girò, rispose: - No.

- Qui non c'è un dottore, per piacere? - riprese il ragazzo.

Purtroppo, a parte il cliente in attesa e l'uomo con il camice non doveva esserci proprio nessun altro.

- Questa è una farmacia, non l'ospedale.

- Lo so, ma è urgente. Non c'è proprio un dottore?

- Senti, ragazzo, avrai bene il tuo medico di famiglia, no? Per ché non cerchi lui ?

- Non posso. Il mio medico non abita in questo paese.

- Ma insomma, cos'è successo ?

- Mio padre sta male e ci vuole un dottore al più presto.

- Ce n'è uno che abita qui di fronte, ma non è l'orario giusto e forse non è in casa. Se mi dici di che cosa si tratta, magari posso darti qualcosa.

- Di fronte, dove ?

- La casa di fronte.

- Grazie, - disse il ragazzo e uscì.

Sul portone c'era la targa e al primo piano la porta. Il ragazzo cercò di aprirla, ma era chiusa. Così suonò. Le chiavi ancora in mano, pigiò il campanello a intervalli brevi, aumentandone l'intensità. Finalmente un uomo aprì.

- Desidera? - e intanto guardava l'orologio, l'una meno un quarto.

Il ragazzo seguì il suo sguardo e lesse l'ora. Forse era già troppo tardi.

- É lei il dottore ?

- Sono io, - rispose l'uomo.

- Senta, è una cosa grave. Mio padre sta morendo. Potrebbe venire subito a casa nostra ?

- Entra, - disse lui.

Dottore, è tardi. Potrebbe essere già tardi, - disse il ragazzo.

Entrò seguendo l'uomo in anticamera. Però non si volle muovere di lì.

- Perché dici che tuo padre muore?

- Perché ha ingoiato il contenuto di quattro scatole di sonnifero ieri notte.

- Dove abiti ?

- In via Mazzini al tre, qui vicino.

- So dov'è. Perché non hai chiamato l'ambulanza?

- Non ho il telefono.

- Be', da un vicino di casa.

- Non conosco nessuno.

Il dottore scosse la testa, poi se la grattò, quindi aggiunse:

- Come lo hai lasciato ?

- Che dorme.

- Hai sentito se respira ancora ?

- Si, ma non si sveglia. Dottore, forse è tardi!

Il dottore fissò il ragazzo, sentì l'affanno di lui, tirò su con il naso e tese i muscoli del viso.

Disse : - Chiamo l'ambulanza da qui. Tu scendi e aspettami giù.

Il ragazzo però non si mosse. L'uomo non gli badò. Entrò in una stanza bianca, prese il telefono. Sulla scrivania c'era la sua borsa nera, lui ne guardava il contenuto mentre parlava con l'ospedale. Fornì l'indirizzo e riattaccò. Quindi cercò in uno scaffale una siringa e quando pensò di avere tutto, chiuse la borsa e tornò in anticamera.

- Andiamo, - disse.

Il ragazzo chiuse la porta dietro di sé e la serratura automatica scattò. Scesero le scale e presto furono in strada. Il ragazzo pensava: a piedi saranno dieci minuti, cinque se fatti di corsa. In macchina ne basteranno tre. Forse non è troppo tardi.

(continua).

   

 
 
www.youtube.com/watch?v=0mX8piCV_QM
 
May 27, 2009 - Uploaded by Lena96inlove

 

 

 

 

 

 

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  • : RIABILITAZIONE POST MORTEM DI PADRE GINO BURRESI
  • : Riabilitazione post mortem di Padre Gino Burresi Firma la Petizione https://petizionepubblica.it/pview.aspx?pi=IT85976 "Sono dentro, donna o uomo che vive li nel seno di questa chiesa. Da me amata, desiderata e capita... Sono dentro. Mi manca aria, Aspetto l'alba, Vedo tramonto. La chiesa dei cardinali madri per gioielli, matrigne per l'amore. Ho inciampato e la chiesa non mi sta raccogliendo. Solitudine a me dona, a lei che avevo chiesto Maternità. E l'anima mia, Povera, Riconosce lo sbaglio di aver scelto il dentro e, Vorrei uscire ma dentro dovrò stare, per la madre che non accetta, Il bene del vero che ho scoperto per l'anima mia. Chiesa, Antica e poco nuova, Barca in alto mare, Getta le reti Su chi ti chiede maternità. Madre o matrigna, per me oggi barca in alto mare che teme solo di Affondare! Matrigna." Commento n°1 inviato da Giò il 2/04/2011 alle 14h27sul post: http://nelsegnodizarri.over-blog.org/article-la-chiesa-di-oggi-ci-e-madre-o-matrigna-67251291
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