Perché i gatti preferiscono morire da soli?
A volte chi possiede un gatto viene turbato dal fatto che il suo beniamino lo abbandoni poco prima di morire. Dopo essere stato accudito e protetto per anni in una famiglia, un giorno l’anziano felino scompare e viene trovato morto in un angolo della rimessa del giardino di fianco, oppure in qualche altro posto ancora più nascosto. I padroni si sentono sdegnati e sì domandano come mai il loro gatto non ha cercato il loro aiuto quando si sentiva così gravemente malato. Per loro, il fatto che l’animale li abbia abbandonati in un momento simile significa che dopo tutto non erano tanto importanti per lui, che non erano un «porto sicuro» come invece ritenevano. In realtà, si sbagliano di grosso.
Questo «morire da soli» non è un fenomeno nuovo. Infatti, uno scrittore orientale annotava già nel 1708 che una delle caratteristiche davvero uniche del gatto è la sua tendenza a «morire in un luogo lontano dalla vista degli esseri umani, come se volesse non far vedere all’uomo il suo aspetto da moribondo, che è insolitamente brutto». Molto tempo dopo, soltanto mezzo secolo fa, Alan Devoe scriveva più o meno la stessa cosa: «Un giorno, spesso senza alcun preavviso, va via di casa e non fa più ritorno. Ha presagito l’ombra della morte e va a incontrarla secondo l’immutabile rituale esistente in natura, cioè da solo.
Il gatto non vuole morire con l’odore dell’uomo nelle narici e il rumore degli esseri umani nelle sue delicate orecchie a punta. A meno che la morte non lo colpisca in modo rapido e improvviso, lui scivola via verso un luogo dove è giusto che una bestia selvatica e piena di dignità debba morire: non su uno dei cuscini o degli stracci del suo padrone, bensì in un posto tranquillo e isolato, con il muso pigiato contro la terra fredda».
I motivi descritti da questi autori non sono altro che invenzioni romantiche, ma è comunque di un certo interesse il fatto che il comportamento di un gatto moribondo sia stato annotato in questo modo da scrittori molto diversi tra loro. È evidente che siamo alle prese con un fenomeno felino che non è né isolato, né casuale, ma che rappresenta invece un aspetto normale e tipico del comportamento del gatto. Se si conoscessero soltanto pochi casi, potrebbe semplicemente trattarsi di animali ai quali è capitato di morire mentre si trovavano in un luogo isolato. Un essere umano che ha un attacco di cuore mentre sta camminando in un bosco non ci è andato per «morire da solo». Nel caso dei gatti, comunque, sembra essere un fenomeno troppo comune per essere spiegato in questo modo.
Per capire il comportamento di questo piccolo felino è essenziale esaminare il modo in cui il gatto affronta la morte. Noi uomini sappiamo tutti che un giorno moriremo e ci comportiamo di conseguenza; il gatto, invece, non ha il concetto della morte e quindi non può prevederla, per quanto malato si senta. Per un gatto, o per qualunque altro animale, la malattia rappresenta qualcosa di spiacevole che lo sta minacciando. Se avverte dolore, si considera preda di un’aggressione. Per lui è diffìcile distinguere tra un tipo di dolore e un altro quando cerca di capire cosa c’è che non va. Se il dolore diventa acuto, il gatto sa di essere fortemente in pericolo, ma se non vede da dove proviene il pericolo, non può voltarsi per affrontarlo e difendersi con una zampata: non c’è niente contro cui prendersela. A questo rimangono soltanto due strategie alternative: scappare o nascondersi. Se il dolore sopravviene mentre il gatto sta «pattugliando» il suo territorio, la sua reazione naturale sarà quella di cercare di nascondersi dal suo «aggressore» e, scorgendo un riparo lì vicino, o qualche altro nascondiglio l’animale vi si dirigerà e rimarrà lì nascosto da solo, aspettando che la minaccia svanisca o che il dolore cessi. Il nostro piccolo amico non osa uscire, Temendo che ciò che ha causato il dolore sia in agguato, e quindi rimane lì a morire da solo, in privato. Nonostante le osservazioni precedenti degli scrittori a proposito di questo argomento, nel momento della sua morte il gatto non sta pensando ai sentimenti del suo padrone, ma semplicemente su come può proteggersi dal terribile e inosservato pericolo che gli sta causando tanto dolore.
Se proviamo pena per un gatto moribondo che non capisce cosa gli sta succedendo, ricordiamoci che lui ha un enorme vantaggio rispetto a noi: non ha alcuna paura della morte, mentre invece è un timore che noi esseri umani dobbiamo portarci dietro tutta la vita…
Tratto da “Capire il gatto” di Desmond Morris A. Mondadori Editore
di freddie86
Salve a tutti. Vorrei esporvi un problema che mi sta lentamente massacrando dentro, ma prima i fatti: quest’estate si è rifatto vivo un mio ex carissimo amico che non sentivo da tempo e al quale ero davvero molto legata. Cominciando a chattare (lui all’epoca dei fatti stava all’estero e forse ci sta tutt’ora) pian piano s’è passato ad un livello di intimità e complicità davvero estremi. Di questo il mio fidanzato non ne sapeva nulla e ha scoperto tutto tramite una telefonata che mi ha fatto questo tipo quando ero con lui, e da lì son venuti pian pano fuori tutti gli “altarini”. Da quel momento in poi ci siamo (o meglio, mi ha) preso e mollato varie volte per le varie cose che veniva sapendo di volta in volta dalle email e quant’altro.
Nel frattempo sono passati cinque mesi in cui noi abbiamo discusso tantissimo e abbiamo deciso comunque di continuare e di ricostruire in nome del sentimento che ci lega, dopodiché a causa di ulteriori discussioni a causa del suo lavoro che lo impegna tantissimo, ha deciso di rompere definitivamente con me perché quella “frattura” non si era ancora ricomposta, e ha perso la fiducia in me (cosa che comunque mi ha sempre detto ma che io ho fatto di tutto per ricostruire). Ora si passa al problema: allora come si fa a riconquistare la fiducia della persona amata e la credibilità ai suoi occhi? Grazie mille anticipatamente per le risposte.