Guardare il mondo con gli occhi dei poveri, e così praticare la fede. Che non è fede in Gesù, ma di Gesù, cioè opera quotidiana d’amore per il prossimo e, di conseguenza, lotta all’ingiustizia. Questo è il messaggio centrale della teologia della liberazione, un modo di vivere la religione senza l’ossessione per il dogma, ma con la passione per la storia; come sostiene il frate domenicano e teologo Frei Betto:
Il messaggio centrale di Gesù è non tanto quello di avere fede quanto quello di mettere in pratica l’amore liberatorio.
Questo movimento, nato negli anni ’60 in Brasile, si è velocemente diffuso in tutta l’America latina e non solo, divenendo tanto un punto di riferimento per la volontà di riscatto delle classi popolari quanto una spina nel fianco delle gerarchie ecclesiastiche, sovente additate come rifugi per privilegiati distanti dal popolo. Come tutti i movimenti, la teologia della liberazione è una realtà fluida e poco strutturata, ma ben radicata nelle comunità di base, una miriade di gruppi religiosi spontanei che insieme interpretano la Bibbia e lavorano per il sociale. Il cardine è sempre la vicinanza ai poveri: con toni che mischiano marxismo e misticismo, si leva la voce di una Chiesa che vuole essere compagna e partecipe, fedele al messaggio di Cristo che visse dalla parte degli ultimi e degli emarginati; nelle parole di Frei Betto:
Per molta gente aprire la Bibbia è come aprire una finestra su interessanti fatti del passato. Nelle comunità ecclesiali di base, invece, la gente povera, quando apre la Bibbia, è come se guardasse se stessa in uno specchio, lo fa per riuscire a capirsi meglio, qui e ora.
La liberazione viene intesa come evento spirituale e sociale: bisogna rompere le catene della povertà, e per farlo si deve risalire all’ancoraggio di tali catene nel peccato. Come gli eletti da Dio sconfissero la schiavitù sotto il Faraone per partire verso la terra promessa, così i poveri devono lottare per la propria libertà e per la giustizia, trovando al proprio fianco la Chiesa. I toni sono chiaramente rivoluzionari ma, a differenza che nel marxismo, la violenza è ripudiata e la sperequazione viene fatta discendere non dalla lotta di classe ma da mali etici, quali l’avidità e la superbia:
Il mondo dei poveri ci insegna che la liberazione arriverà quando questi nostri fratelli poveri non staranno più dalla parte di chi riceve le elemosine dal governo e dalle chiese, ma saranno essi stessi protagonisti della loro lotta per la liberazione (Vescovo Óscar Romero).
I preti e i missionari della liberazione lavorano nelle strade, nelle favelas e nei campi delle nuove schiavitù: la loro retorica esalta le meraviglie dell’America latina e le sue enormi risorse spirituali, mentre lancia l’anatema contro lo sfruttamento del lavoro, la corruzione e l’arroganza dei potenti. Non a caso sono vicini al movimento per un’altra globalizzazione e a quello dei contadini senza terra, con i quali condividono l’humus del fermento sociale sudamericano.
Insomma, per queste comunità cristiane di base la fede è passione per il proprio tempo, impegno sociale e politico, lotta indefessa contro le ingiustizie. L’amore a cui invita Cristo è per il prossimo, e solo tramite il prossimo si può amare anche Dio. In questa interpretazione radicale della fede e dell’incarnazione divina, l’approccio dogmatico e catechistico tipico del Vaticano lascia il posto alla pastorale, alla vita in comunità e alla sete di giustizia: un approccio profondamente immanente alla religione e alla vocazione del credente.
Paradigmatica la storia di Óscar Romero (1917-1980), arcivescovo di San Salvador che si batté contro le violenze della dittatura salvadoregna. Nel 1980 la guerra civile aveva provocato più di 75.000 morti e un milione e mezzo di rifugiati. Il regime al potere, sostenuto dagli Usa, fu giudicato “colpevole di genocidio” dalla commissione sulla verità dei fatti dall’ONU. Romero, idolo della popolazione per le sue lotte a favore dei diseredati e contro l’autocrazia, venne assassinato il 24 marzo di quell’anno mentre celebrava l’eucarestia. “Se mi uccideranno risorgerò nel popolo salvadoregno”: e così fu; ancora oggi Romero è celebrato come un santo in tutta l’America Latina. E sempre attuale rimane la sua definizione della Chiesa:
Essendo nel mondo e perciò per il mondo (una cosa sola con la storia del mondo), la Chiesa svela il lato oscuro del mondo, il suo abisso di male, ciò che fa fallire gli esseri umani, li degrada, ciò che li disumanizza.
La teologia della liberazione è quindi ricerca di una vita piena in questo mondo. Frei Betto nota a riguardo come Gesù nei Vangeli risponda infastidito a chi gli chiede come entrare in Paradiso, come se la domanda mal interpretasse il senso della fede.
La prima domanda che spesso viene posta a Gesù è: “Signore, che devo fare per guadagnare la vita eterna?”. Ecco, questa domanda non esce mai dalla bocca di un povero. Esce sempre da coloro che si sono assicurati la vita terrena e che quindi pensano ad assicurarsi anche l’al di là. È la domanda tipica dell’uomo ricco, che vuol sapere come poter comprare anche il paradiso. E tutte le volte che Gesù ascolta questa domanda si sente a disagio, irritato. E ha anche reagito in modo un po’ aggressivo quando un ricco, nel porgli la domanda, lo adula apostrofandolo: “Buon maestro”. “Io non sono il maestro, il buon maestro è Dio”, gli risponde Gesù.
La seconda domanda che si incontra è invece: “Signore, come devo fare per avere una vita in questa vita?”. Ecco, questa viene solamente dalla bocca dei poveri. “Le mie mani sono inerti, hanno bisogno di lavorare. Sono cieco, ho bisogno di vedere. Sono paralitico, voglio camminare. Mio fratello è morto, vorrei vivesse. Mia figlia è malata, vorrei che guarisse”. I poveri chiedono a Gesù vita in questa vita. E a loro Gesù risponde sempre con misericordia e compassione. Perché lui stesso ha detto “io sono venuto qui perché tutti abbiano vita, e una vita piena”.