Colloqui col padre IO, SACERDOTE IN CRISI, abbandonato da tutti | |||
Lo sfogo di un giovane prete che, in difficoltà vocazionale, ha deciso di rinunciare al ministero. La sofferenza attuale e le incertezze sul futuro.
Antonio La storia che ci racconta Antonio è drammatica e colma di sofferenza: dopo essere entrato in seminario a 11 anni, percorre tutto il cammino formativo fino all’ordinazione sacerdotale; gli impegni e le fatiche del ministero, il sentirsi trattato come una semplice pedina, fanno emergere le carenze affettive e le frustrazioni mai risolte durante gli anni di seminario. L’unica persona che lo capisce e gli dimostra un po’ d’affetto è una ragazza, di cui s’innamora. Ecco allora la crisi e la decisione di lasciare il sacerdozio. Verrebbe da chiedersi se queste motivazioni siano sufficienti per operare una scelta così radicale, se l’emotività e il sentirsi solo e incompreso non abbiano giocato un brutto scherzo ad Antonio, se egli non troverà altre difficoltà, oltre a quelle materiali, nel condurre la sua nuova vita. Tuttavia, sapendo che è stato seguito da uno psicologo e aiutato in una comunità, dobbiamo pensare che egli abbia fatto un autentico discernimento di vita. Se ne parliamo, è perché la storia di Antonio si inserisce in un contesto più ampio. Secondo le statistiche sono 52.662 i sacerdoti che, dal 1964 al 1996, hanno abbandonato il loro ministero; di questi, 30.217 appartengono al clero diocesano. Alla fine del 1998 i sacerdoti in Italia erano 54.975 (35.452 i diocesani, 19.523 i religiosi), mentre i seminaristi (studenti di teologia) nel 1997 erano circa 3.381. Aride cifre, dietro le quali si nascondono vicende umane assai diverse: la generosità del dono di sé stessi a Dio e alla Chiesa, la gioia e la fatica della fedeltà quotidiana, drammi personali e grandi sofferenze. Tutto questo non riguarda soltanto i vescovi e il clero in generale, ma tutta la comunità cristiana, chiamata a riflettere, a comprendere, ad aiutare e ad accompagnare con la preghiera e con il sostegno concreto le vocazioni sacerdotali. È bene, dunque, non lasciar cadere l’invito alla riflessione di Antonio. I problemi che espone sono molti e complessi: si va dalla formazione nei seminari al celibato ecclesiastico, dalle difficoltà in cui si vengono a trovare i preti nei primi anni dopo l’ordinazione all’inserimento nella comunità ecclesiale di chi ha lasciato il sacerdozio. Per quanto riguarda i primi due aspetti, mi limito ad un breve accenno. Certamente gli anni di formazione sono importanti per aiutare le persone a scegliere in modo libero e responsabile. Questa scelta non può essere fatta a 11 anni, ma matura un po’ alla volta; d’altra parte è vero che i ragazzi hanno bisogno del calore e dell’affetto dei genitori. Per questo le diocesi e le congregazioni religiose si stanno orientando sempre più sui giovani. Il celibato ecclesiastico è un argomento molto discusso: è vero che si tratta di una legge della Chiesa, di quella latina in particolare, ma è anche vero che ci sono molti motivi teologici e di opportunità a suo favore. Il problema però si pone in modo forte soprattutto al di fuori dell’Europa. Vorrei soffermarmi maggiormente sugli altri due temi. Prima di tutto sulle difficoltà dei sacerdoti novelli, spesso sballottati di qua e di là perché le necessità pastorali sono tante e urgenti. In breve tempo molti si sentono solamente dei numeri, degli impiegati, abbandonati a sé stessi. Lo stress causato dal superlavoro e dal sentirsi incompresi spinge a cercare l’aiuto e il conforto di qualcuno: spesso si tratta di una donna, vista la particolare sensibilità della natura femminile. Molti vescovi si sono accorti di questo problema, che si unisce alla particolare fragilità psicologica delle giovani generazioni, e stanno correndo ai ripari, organizzando incontri, provvedendo attraverso il dialogo e l’accompagnamento spirituale ad aiutare i giovani preti. È auspicabile che questa sensibilità si diffonda sempre più. Da parte dei fedeli non dovrebbe mancare il contributo della preghiera e l’attenzione a non esigere più di quanto la persona possa realmente dare. C’è da dire che le tante attività e i compiti sempre più impegnativi inducono molti presbiteri a trascurare la preghiera e il cammino spirituale, ma senza l’unione con Gesù Cristo e la sua grazia le forze umane ben presto vengono meno. Un tema delicato è quello della carità dovuta ai sacerdoti in crisi e a quelli che hanno lasciato il ministero. L’amore, come scrive san Paolo nella lettera ai Romani, è l’unico debito che dobbiamo avere verso tutti, e questo vale in particolare con le persone in difficoltà. È triste quello che scrivi, Antonio: sono stato «abbandonato e dimenticato da tutti i miei confratelli sacerdoti». È vero che in passato chi lasciava il sacerdozio era trattato come un "apostata" o un "disertore"; la stessa figura dello "spretato" (gran brutto termine) non ha mai goduto di una buona letteratura. Oggi però i tempi sono cambiati e la carità evangelica deve sempre prevalere, anche attraverso un aiuto concreto. Soprattutto quando all’origine di una scelta così grave c’è un dramma personale che merita comunque sempre rispetto. A maggior ragione quando la persona desidera vivere ancora intensamente la propria vita cristiana, offrendo il proprio contributo a tutta la comunità. In ogni caso, Antonio, non ti devi abbattere o scoraggiare. Rifletti ancora attentamente sulle tue scelte e approfondisci ogni giorno di più, mediante la preghiera e i sacramenti, l’unione con Cristo. Sono certo che troverai anche l’aiuto materiale di cui hai bisogno e nuove possibilità di servire il Signore e i fratelli
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