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13 giugno 2011 1 13 /06 /giugno /2011 04:39

Speciale Sinodo dei Vescovi - Il Cardinale Levada dice no a letture soggettive della Bibbia: “Solo il Magistero è interprete autentico della Parola di Dio”



CITTA’ DEL VATICANO - Un ''no' alla interpretazione ''soggettiva o puramente esperienziale'' della Bibbia e' venuto dal prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il Cardinale William Joseph Levada (nella foto), nel suo saluto al XII Sinodo dei Vescovi, dedicato alla parola di Dio. Il porporato ha anche ribadito ''la responsabilita' del Magistero'' come ''interprete autentico della parola di Dio''. ''Soltanto la viva Tradizione ecclesiale - ha detto - permette alla Sacra Scrittura di essere compresa come autentica parola di Dio, che si fa guida, norma e regola per la vita della Chiesa e la crescita spirituale dei credenti. Cio' comporta - ha sottolineato Levada - il rifiuto di ogni interpretazione soggettiva o puramente esperienziale o frutto di una analisi unilaterale, incapace di accogliere in se' il senso globale che nel corso dei secoli ha guidato la Tradizione dell'intero popolo di Dio''. ''In questo orizzonte - ha rimarcato il Prefetto dell’ex Sant’Uffizio - nasce la necessita' e la responsabilita' del Magistero, chiamato ad essere interprete autentico della stessa parola di Dio a servizio dell'intero popolo cristiano e per la salvezza di tutto il mondo; e anche noi Vescovi conosciamo quanto siano grandi le nostre responsabilita' come legittimi successori degli apostoli e quanto da noi attenda la societa' di oggi, alla quale abbiamo il dovere di trasmettere la verita' che abbiamo, a nostra volta, ricevuto''. ''Pertanto - ha concluso il Cardinale Levada - questo compito spetta ai vescovi direttamente in prima persona''.

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Benedetto Calati, un monaco senza indulgenze 


di ROSSANA ROSSANDA

 

 

 

 

Si è spento a Camaldoli Benedetto Calati, un monaco raro che amavamo e che ci amava e per noi, che non speriamo nell'eternità, per sempre perduto. Era avvertito della fine, aveva salutato i fratelli saliti fra vento e pioggia a dirgli addio, ma si è era schermito dal benedirli, come per restare il più spoglio fra di loro. E poi s'era fatto riportare in cella, lontano dall'agitazione che circonda anche la morte, trattenendo con un gesto soltanto Emanuele Bargellini, che porta su di sé la responsabilità del convento, la mano nelle mani di lui, finché l'ansia del respiro si è andata acquietando nel sonno della fine.
Aveva 86 anni, era smagrito come un ramo secco, i grandi occhi scuri rimasti divoranti sul volto smunto. "Benedetto ha ottant'anni" aveva telefonato ridendo un certo mese di marzo; nessuno ama la vita come chi vede in essa una meraviglia di dio. Era nato povero, Luigi Calati, che poi aveva scelto il nome del suo ordine, i benedettini, nella campagna del tarantino, e da ragazzo i suoi l'avevano messo nel convento dei carmelitani a Mesagne. Di quella campagna ossequiente aveva raccontato una volta a Montegiove, facendo sussultare un vescovo che s'era presentato inatteso, che la processione del Corpus domini si fermava sotto il balcone dei signori del paese, perché essi non vi partecipavano fra il volgo. Era nato ribelle, se a 16 anni era scappato una notte verso Camaldoli dove gli avevano detto che la parola era studiata "sine glossa", senza il filtro dell'interpretazione obbligata o consentita. E di Camaldoli era diventato la guida nel 1969, in ubbidienza ma con il cuore libero, che era la sola cosa libera che la chiesa lasciava allora e che gli aveva insegnato il suo testo prediletto, gli scritti di Gregorio Magno, il papa che era stato un prefetto di Roma e poi s'era raccolto al Celio, mentre l'unicità dell'impero era battuto dall'irruzione dei barbari/l'altro, abbattendone l'arroganza. Gregorio, il solo pontefice che aveva detto: "L'ultimo dei credenti può interpretare la parola come me".

Ma poi la chiesa se l'era non innocentemente scordato, e quella che Benedetto aveva conosciuto da giovane era chiusa ed occhiuta, fino ai rimbrotti del Sant'Uffizio, pronto a ritirare l'insegnamento se non a scomunicare anche i più grandi. Così per prima cosa, pur tacendo, aveva riaperto Camaldoli al suo ruolo storico di passo, luogo di sosta, accoglienza e ascolto dei viaggiatori che attraversavano l'Italia. A Camaldoli nei secoli passati erano affluiti da Firenze anche i Medici e qui adesso affluivano gli amici inquieti e anche qualche nuovo potente, che Benedetto scrutava riconoscendo, con un sorriso, "un poveretto allevato nelle sacrestie".
E a capo di Camaldoli era rimasto fino al 1984, quando qualche commesso di Roma lo aveva indotto a lasciare. Ma ormai il monastero era cambiato, c'erano i suoi allievi ed amici, ed egli ne rimaneva il riferimento - non l'autorità, termine che non amava. Un centro di preghiera e opere, ricerca teologica e musica, spalancato sul mondo - non arrivava a dire che forse ogni monaco avrebbe dovuto lavorare fuori, e poi rientrarvi, per non cedere all'appartarsi dalla vita reale degli uomini? Da parte sua, egli scendeva a Roma, insegnava a Sant'Anselmo, visitava le altre case e i gruppi che lo chiamavano.

E l'estate veniva a Montegiove, la bella casa benedettina un poco cadente sopra Fano, dove si riunivano credenti e non credenti, definizione di cui a lui non poteva importare di meno, giacché dio, era scritto, aveva amato il mondo, non solo i fedeli. A Montegiove si discuteva dei temi e dei dilemmi sapienziali, quelli che in ultima istanza non sono così distinguibili fra religione e religione, religione e laicità - il cristiano ha in più la fede, che è un dono e una virtù, ma un po' meno essenziale dell'amore. Leggeva per noi i testi che più amava - ma perché torna su Gregorio?, si chiedevano talvolta i fratelli più giovani. Penso che fosse perché era il pontefice che aveva detto: siate soli davanti al testo. E nelle sue parole, nelle ricerche dei biblisti, nelle nostre domande o obiezioni o risposte, Benedetto ascoltava se stesso, vedeva la profezia come un anagramma della storia, e fra esse e il tempo vedeva inscriversi il cammino degli uomini. Del resto, un solo errore gli appariva una colpa ed era il potere, il potere sulle menti, il potere del comando e della ricchezza. Era stato l'editto costantiniano, il patto fra la chiesa e il potere terreno, la vera grande colpa. Per chi non aveva potere e con lui cercava, egli nutriva un'insaziata curiosità e tenerezza. Erano gli amici e le amiche, cui scriveva come Gregorio: "Perché non vieni? Tutta Roma ti aspetta". Ma non era vero niente, aggiungeva ridendo, non era Roma era Gregorio che aspettava.

A Montegiove lo sentii per la prima volta, me l'aveva indicato Adriana Zarri, parlava sulla legge, la coscienza, la libertà e metteva la libertà per prima. Non succede spesso che un sacerdote parli così, ma dio ci ha fatto liberi, ricordava. Liberi di pensare e liberi di ascoltare. Anche qualche anno dopo, quando parlammo dell'esilio, rivendicò al monachesimo non la fuga dal mondo - respingeva il contemptus mundi, il disprezzo del mondo predicato dalla chiesa devozionale - ma il ritiro dell'io con la parola, senza l'intermediario della legge. Il monachesimo è stato la libertà della chiesa nascente. Al convento bisognava tornare per continuarne a uscire fra la gente.
Lui continua a muoversi dalla cella al mondo. E poiché i monaci sono pazzi, ne uscì anche in un impietoso luglio, quando il solleone del meriggio lo colse in viaggio, e un ictus lo colpì, crudelmente bloccandogli la mano e la parola, lo scrivere e il parlare, il tramite fra lui e gli altri. Nessuno di noi dimenticherà il fuoco delle sue parole brevi e appassionate, che nessuna pagina restituirà mai.

Dal limite e l'umiliazione del non riuscire a districare i suoni e reggere la penna, era uscito da solo, sfuggendo per riserbo alle affettuose violenze dei medici - non poteva sentirsi addosso le mani su quel corpo che, ci spiegò una volta sorprendendoci un benedettino diverso, Teodoro Salmann, imparava dal monachesimo una compiuta compostezza; che, secondo Paolo, ci spiegava il biblista Barbaglio, è cosa di dio. Non so che cosa ne pensasse Benedetto. Non gli piaceva né soffrire né indebolirsi, ed era riuscito a venirne fuori da solo, caparbio, la parola appena un poco intralciata e la mano appena meno ferma. Aveva dovuto rinunciare alle lezioni a Sant'Anselmo, diminuire i viaggi, evitava i passeggi, come le lunghe scalinate del Celio, dove doveva essere aiutato. Non amava l'idea della morte, ne aveva paura, mi disse un giorno che parlavamo sotto il diluvio, lui inquieto nella zampata che si era sentito addosso e io appesantita dalle insufficienze nelle quali sta finendo la mia strada. Mi dicono che ultimamente le si era riconciliato, riconciliato con la fine della meravigliosa vita, questa vita, traversata dal tempo che la divora, ansia e dubbi e felicità delle creature: amava San Francesco più per il Cantico delle creature che per la povertà, lui che non aveva nulla e non vidi mai nel bellissimo abito bianco del suo ordine, lui che girava in pantaloni e maglione, una sciarpa al collo.

Ma doveva essere ormai pieno di collera, se questa parola gli si può attribuire, o forse un eccesso di amore frustrato per la chiesa che era stata la sua passione. Come ha detto questa estate a un amico (Raffaele Luise, La visione di una monaco, Cittadella Editrice, pagg. 95, Assisi 2000), aveva veduto nel Concilio Vaticano II la realizzazione della speranza che la chiesa ritrovasse lo spirito del Nuovo testamento e la sapienza del Vecchio. Speranza nutrita in un lungo silenzio, perché gli ultimi papi "avevano paura della laicità, paura del mondo sconsacrato", ignoravano che "dio non dice di amare i fedeli ma di amare il mondo". Ma poi era venuto il miracolo di Giovanni XXIII, "figlio di contadini che arrivò a essere papa - contro ogni diplomazia e regola - perché era tanto vecchio... sussultammo anche noi per quel papa vecchio prima di scoprire che era giovane". E ricorda il riso liberatorio con cui lo videro arrivare in Vaticano "sulla sedia gestatoria con la tiara in testa e la fettuccia delle mutande che era stata legata male. Finalmente ridemmo". Erano stati liberati dal papa "che ci ha dato il Concilio, cioè il primato della parola di dio oltre ogni gerarchia umana, cristiana, cattolica".
Ma poi sono venuti i colpi di arresto, le prudenze (è severo Benedetto con Paolo VI) e infine la concessione alle pompe e agli ori e alla mediaticità del sontuoso giubileo, e quel piovere di vergognose indulgenze e beatificazioni, perfino Pio IX. Già l'anno scorso ne aveva fatto un cenno severo a Montegiove. Adesso nell'intervista a Luise la requisitoria è spietata. Sì, aveva sperato che il Concilio facesse uscire la chiesa da quello stato in cui "non c'era più ombra di vita, i fedeli dovevano essere più che fedeli, obbedienti", come i sudditi di una repubblica pagana, tutti sotto controllo. Il dialogo ecumenico si apriva fra religioni e fra gli uomini e le donne, "uomini e donne alla pari, che sono essi la chiesa, il popolo di dio", non più soltanto cardinali, papi, curia e vescovi. Popolo dove ognuno "conserva la rivelazione nel suo cuore come Maria", la sorella di Marta, "perché la chiesa non inventa la verità, la custodisce". Ma allora, gli è stato chiesto, il Sant'Uffizio? "Deve andare a farsi friggere". E la Congregazione della dottrina della fede? "Un'espressione senza senso". Già circolano le voci sussiegose, quando mai un monaco parla così? Benedetto non salva uno degli apparati ideologici della chiesa, tantomeno la curia: non hanno rampognato anche le miti parole del padre Dupuis, mentre elogiano l'Opus Dei e Comunione e Liberazione? Le istituzioni del Vaticano sono residui, temporali, storici. Ma allora l'infallibilità del papa? Storica anch'essa, recente. E il papato? La chiesa dovrebbe essere di tutti, delle "aggregazioni locali con il loro presidente e, mi auguro, la loro presidente". Dunque l'esclusione della donna dall'amministrazione dei sacramenti? Non comprensibile esclusione storica, ma errore, colpa. Non sono le donne che erano rimaste con Cristo sotto la croce mentre tutti gli altri, perfino Giovanni, fuggivano? Non è a Maria che Cristo risorto si rivolge per primo: Maria non mi riconosci? Non erano certo mancate all'ultima cena e se una donna ha evangelizzato la Germania vuol dire che amministrava i sacramenti (Luise annota: non è storicamente provato). E l'amore? L'amore è quel che più conta. E' il paradigma della cristianità, il senso della chiesa. Ma l'amore carnale? Sì, anche quello, quello del Cantico dei cantici, di San Giovanni della Croce, di Abelardo ed Eloisa, capiti da Pietro il Venerabile, l'unione dei corpi. Ma l'obbligo del celibato? Una prevaricazione di una piramide maschile come è la chiesa romana. Il celibato non può essere che una libera scelta del monaco.

Su questo ultimo Benedetto, che ha raccolto le forze per riordinare quel che a voce appena un poco più bassa aveva sempre detto, il silenzio del Vaticano è calato come un macigno. Ma forse parlerà a molti cristiani che vi riconosceranno.

( da "Il Manifesto" del 26 novembre 2000)


 

 

11/08/2003 - Il Manifesto - ADRIANA ZARRI

Parabole

C'è un adagio, nella letteratura cristiana, che gode di ottima reputazione...

C'è un adagio, nella letteratura cristiana, che gode di ottima reputazione. Più di un santo, certo con ottime intenzioni, l'ha seguito, e lo vedremo citare, con consenso, anche nel documento che citeremo in seguito. Si tratta del detto «sine glossa», applicato ai Vangeli e, in generale, alla Scrittura. Ma io mi permetto di fare qualche riserva. Che significa «senza commento, senza interpretazione, senza esegesi»? Che dovremo leggere la Bibbia alla lettera e credere, nelle prime pagine del Genesi, al serpente che parla?

 

 

Lessico

 

 

No, non si tratta delle mie solite divagazioni lessicali, bensì di una sorta di dizionario (Lexicon) sui termini ambigui delle questioni etiche, a cura del cardinal Truijllo (un personaggio chiacchierato). Attraverso questa raccolta di termini chiave si fa un vero trattato di morale (una morale, appunto, sine glossa) così come viene proposta dal Vaticano di cui il suddetto cardinale è interprete fedele

Libertà
4 min - 24 nov 2009
Caricato da solitarios000

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  • : RIABILITAZIONE POST MORTEM DI PADRE GINO BURRESI
  • : Riabilitazione post mortem di Padre Gino Burresi Firma la Petizione https://petizionepubblica.it/pview.aspx?pi=IT85976 "Sono dentro, donna o uomo che vive li nel seno di questa chiesa. Da me amata, desiderata e capita... Sono dentro. Mi manca aria, Aspetto l'alba, Vedo tramonto. La chiesa dei cardinali madri per gioielli, matrigne per l'amore. Ho inciampato e la chiesa non mi sta raccogliendo. Solitudine a me dona, a lei che avevo chiesto Maternità. E l'anima mia, Povera, Riconosce lo sbaglio di aver scelto il dentro e, Vorrei uscire ma dentro dovrò stare, per la madre che non accetta, Il bene del vero che ho scoperto per l'anima mia. Chiesa, Antica e poco nuova, Barca in alto mare, Getta le reti Su chi ti chiede maternità. Madre o matrigna, per me oggi barca in alto mare che teme solo di Affondare! Matrigna." Commento n°1 inviato da Giò il 2/04/2011 alle 14h27sul post: http://nelsegnodizarri.over-blog.org/article-la-chiesa-di-oggi-ci-e-madre-o-matrigna-67251291
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