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17 giugno 2020 3 17 /06 /giugno /2020 17:06

PADRE NOSTRO

SE NON SI VIVE IL PADRE NOSTRO ANCHE LE COSE CHE CI CIRCONDANO NON CI DIRANNO NULLA.  PERCHE'?

PERCHE' L'UOMO SE NE SERVIRA' SOLTANTO PER INCRETINIRSI SEMPRE DI PIU'. PRENDIAMO LE PRIME PAROLE E MEDITIAMOLE BENE: PADRE NOSTRO!  SE DIRETE QUESTE PAROLE E LE DIRETE CON UN PO' DI FEDE, VI SENTIRETE SUBITO ALLARGARE LE BRACCIA E IL CUORE.

HO DETTO CON UN PO' DI FEDE: PERCHE' SE NON AVESSI FEDE, A CHE SCOPO DIRE: PADRE NOSTRO CHE SEI NEI CIELI?

MA ANCHE CON UN MINIMO DI FEDE, SENTO CHE IL MIO CUORE SI APRE A DIO E DIO SI APRE AL MIO CUORE, E AVVIENE SUBITO L'UNIONE TRA IL PADRE E IL FIGLIO, IL PADRE CHE E' DIO E IL FIGLIO CHE SONO IO.

(Tratto da : Fratel Gino Burresi o.m.v. La Stagione del Castagno)

 

Vorrei che fosse amore - Mina (con testo) - YouTube

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17 giugno 2020 3 17 /06 /giugno /2020 06:17

IL PADRE NOSTRO SCUOLA DI VITA

SPERO CHE ABBIATE CAPITO ALMENO QUESTO: CHE TUTTE LE COSE CI PARLANO DI DIO.

DEVO SOLO AGGIUNGERE CHE L'UNIVERSO INTERO NON CI DIRA' UN BEL NIENTE SE PRIMA NON RIUSCIREMO A CAPIR BENE LA PREGHIERA CHE ABBIAMO RECITATO QUESTA MATTINA NELLA SANTA MESSA TRA LA RICHIESTA DI PERDONO E LA SUPPLICA A DIO CHE CI VENGA IN AIUTO, CIOE' LA PREGHIERA PIU' BELLA CHE ESISTA: PADRE NOSTRO CHE SEI NEI CIELI...

(Tratto da Fratel Gino Burresi o.m.v. : La Stagione del Castagno)

 

Mia MARTINI - ALMENO TU NELL'UNIVERSO - YouTube

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17 giugno 2020 3 17 /06 /giugno /2020 05:33

"Il Castagno è il nome di una piccola località del comune di Gambassi. L'allora parroco del luogo, don Giovanni Giubbolini, vi costruì una nuova chiesa con un'ampia cripta che nei mesi di agosto e settembre metteva a disposizione di Fratel Gino Burresi, nato a Gambassi il 7 luglio 1932 e divenuto sacerdote l'8 maggio 1983, tra gli Oblati di Maria Vergine a San Vittorino Romano, dov'era la sua comunità religiosa.

Fratel Gino vi raccoglieva in quei mesi decine di giovani provenienti da varie parti d'Italia, e anche dall'estero, per aiutarli a studiare la propria vocazione e l'impostazione da dare alla propria vita.

Vi stavano del tutto gratis, spesati dalla divina Provvidenza. Erano una cinquantina di giovani pieni di allegria, di buone speranze e di buon appetito. Il mese passato al Castagno non era un campeggio, non una vacanza, non un mese ignaziano di esercizi spirituali, ma solo un po' di tutto questo. Il servizio logistico era assicurato gratis dal parroco, coadiuvato dalle Suore Oblate di Maria Vergine di Fatima. Punto centrale della giornata del Castagno era la conversazione di Fratel Gino col suo giovane uditorio.

Con particolare insistenza egli tratta ciò che riguarda una scelta di vita, una vocazione di dono totale di sé al Signore, alla Chiesa, all'apostolato tra le anime.

Fratel Gino ha intuito la necessità di parlare ai giovani di vocazione religiosa e i frutti che ne ricavava gli davano ragione: infatti, non ritornava mai solo dal Castagno a San Vittorino; c'era sempre una retata di giovani che avevano maturato la loro decisione e lo accompagnavano." (Tratto da "La Civiltà cattolica").

 

Giù la rete

Morning Star

Giù la rete, su la rete
Non c'è pesce da pescar
Giù la rete, su la rete
Chissà mai dove sarà

Quella notte lì a pescare
Quella notte a faticare
Con l'angoscia dentro sé
Non sapevano che fare
Ormai è inutile sperare
Pesce non ce n'è

Ma perché provare
È meglio andare, il sole sale già
Ma Gesù che era lì disse "Provate qui"
E la rete si riempì

Questo è quello che è accaduto
Quella notte nella barca di Pietro e di Giovanni
Loro ancora non sapevano il motivo del miracolo
E perché andò così

Ma Gesù li chiamò e così parlò
"Seguite solo me
Pescatori di uomini vi farò"
Il mondo è il mar

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27 maggio 2020 3 27 /05 /maggio /2020 04:36

 

Ripropongo oggi, nel 15° anniversario della condanna di Padre Gino Burresi, il testo del 2 aprile 2011 di Giò, che ho inserito nella petizione per la riabilitazione post mortem di Padre Gino Burresi.

 

Detto testo mi giunse quale commento al mio post del 15 febbraio 2011

LA CHIESA DI OGGI CI E' MADRE O MATRIGNA ?

 

La email di provenienza di quel commento era:

 

abcvita25e@yahoo.it

 

Ho analizzato la composizione della email e posso dedurne che Giò nel giorno in cui postò il suo commento del 2 aprile 2011, sapeva perfettamente il giorno, il mese e l'anno della sua morte ("tramonto") e della sua nuova "vita" (l'alba)

 

abc: 3

 

e    : maggio

 

25   : 25° anniversario della erezione come istituto di diritto diocesano dell"Istituto dei Servi del Cuore Immacolato di Maria" , dall’allora Rev.mo Abate e Vescovo di Subiaco Mons. Stanislao Andreotti, avvenuta il 19 giugno 1993, a cui Padre Gino Burresi apparteneva.

 

Padre Gino Burresi è morto il 3 maggio 2018, nel 25° anniversario.

 

Per tutti coloro che ancora dubitano che la paternità di quel testo sia di Padre Gino Burresi, questo è un segno che spero vada ad aumentare la loro fede.

 

Riccardo Sante Maria Fontana

 

RIABILITAZIONE POST MORTEM DI PADRE GINO BURRESI

Giò 04/02/2011 14:27

Sono dentro,
donna o uomo che vive li
nel seno di questa chiesa.
Da me amata,
desiderata e capita...
Sono dentro.
Mi manca aria,
Aspetto l'alba,
Vedo tramonto.
La chiesa dei cardinali
madri per gioielli,
matrigne per l'amore.
Ho inciampato
e la chiesa non mi sta
raccogliendo.
Solitudine a me dona,
a lei che avevo chiesto
Maternità.
E l'anima mia,
Povera,
Riconosce lo sbaglio
di aver scelto il dentro e,
Vorrei uscire
ma dentro dovrò stare,
per la madre
che non accetta,
Il bene del vero
che ho scoperto
per l'anima mia.

Chiesa,
Antica e poco nuova,
Barca in alto mare,
Getta le reti
Su chi ti chiede maternità.
Madre o matrigna,
per me oggi
barca in alto mare
che teme solo di
Affondare!
Matrigna.



04/03/2011 19:48


Caro Giò, sento sulla mia pelle e dentro le mie viscere la tua sofferenza. Sia per te
un balsamo questa canzone d'amore che ti dedico e ti canto a squarciagola. Ti abbraccio e ti
tengo sul mio cuore materno.


Riccardo



giò 04/03/2011 20:22


ti ringrazio riccardo!
Sono felice di averti vicino!
Questa sera mi tocco in silenzio il labbro superiore,li ho sempre trovato il desiderio di un bacio che,nel tempo gli ho negato e oggi è ancor più desiderato.
Ti ringrazio anche per la canzone che porta piacere alla sofferenza.
Accolgo l'abbraccio materno.
G

 

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14 aprile 2020 2 14 /04 /aprile /2020 06:25

 

 

https://www.piasocietasangaetano.it/2020/04/10/la-chiesa-e-sotto-la-croce/

Gv 18,1 – 19,42 – Venerdì Santo (Passione del Signore)

 

Gesù è innalzato e attira tutti a sé. Attira il nostro sguardo, attira il nostro cuore. E restituisce uno sguardo di sovrana mitezza, e un cuore squarciato di gratuità e grazia.

E noi, dove siamo? Dove sta la Chiesa in questo frangente in cui si compie la salvezza per l’umanità intera? Il racconto della passione secondo l’evangelista Giovanni ha dettagli distinti dagli altri vangeli. Nei pressi della croce non c’è la folla. Vi sono i soldati romani, i pagani. E ci sono le donne, a fare da corona alla Madre, assieme al discepolo che egli amava.

Facciamo un passo indietro. Nell’Orto degli Ulivi, Gesù viene catturato, e il testo non menziona la fuga codarda dei suoi, che sono piuttosto irruenti e maldestri nell’uso della spada, come avviene per Pietro. Gesù, invece, che non viene descritto agonizzante e triste, si preoccupa per loro: “Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano” (18,8). Certo, degli apostoli rimane comunque lo smarrimento e l’incapacità a farsi carico del dramma, e Pietro vigliaccamente rinnega il Maestro nel cortile del sommo sacerdote. Ma nella cura che Gesù ha dei suoi, ai quali ha donato un lungo e commovente discorso di commiato attorno al tavolo dell’ultima cena (capp. 14-17), sentiamo vibrare un annuncio nuovo, un preludio del compimento: conta molto di più la capacità del Figlio di Dio di portare su di sé la nostra povertà, che la nostra povertà stessa. È Gesù che si carica della croce, e non è nemmeno aiutato dal Cireneo. Giovanni insiste molto sulla regalità dell’uomo di Nazareth, che decisamente governa la storia e gli eventi nel dono totale di sé che ci salva. Siamo nelle sue mani, nelle sue braccia: la storia appartiene a Lui, anche quando a noi sfugge!

Ecco, in questa scena maestosa, dove il dolore di ciascuno di noi è assunto integralmente, ma allo stesso tempo superato e vinto dalla potenza dell’amore, dove sta la Chiesa? Che in altri termini significa chiederci dove stiamo noi, anche oggi, giorni pasquali nei quali ci sentiamo in qualche modo dispersi e smarriti, disseminati nelle nostre case con il timore di essere lontani da Lui e dal suo sguardo, attirati senza poterlo raggiungere per farci bagnare dagli zampilli di acqua e sangue del suo costato. Dove siamo noi, come Chiesa, oggi che nella memoria della Sua passione non possiamo radunarci come folla nella chiesa edificio?

Eccoci, allora, di nuovo lì, dentro la Parola che ci consegna l’evento. Sotto la croce vi sono le donne, e soprattutto la Madre e il discepolo amato. E Gesù consegna lui a lei, e lei a lui. Toccante icona di pietà filiale, ma, ben oltre ciò, azione di ostetricia: qui nasce la Chiesa! Lo possiamo dire senza paura di tradimenti esegetici. Certamente ci vorrà la potenza dello Spirito nella Pentecoste, ma qui già avviene il preludio, e infatti per Giovanni la morte di Gesù è ‘consegna dello spirito’ (cfr 19,30), e la lancia che colpisce il fianco del Signore defunto apre il varco della vita battesimale e sacramentale. Ma l’essenza, da parte nostra, è manifestata da quella presenza: la Madre e il figlio nuovo, o meglio tutti noi suoi figli e fratelli del Signore rappresentati dal discepolo amato. Siamo lì. Lei è lì, con noi.

Lei “stabat”, verbo tanto amato dalla tradizione liturgica e devozionale; verbo tanto caro a Gesù, che identifica l’amore con un “rimanere” (cfr. 15,9). La Chiesa è la Madre che rimane ai piedi della croce e accoglie fra le sue braccia, con il Figlio, tutti i figli sofferenti e perseguitati. La Chiesa è l’incontro della Madre con i nuovi infanti nella fede, tanti Giovanni bisognosi di prendersi cura di lei per permetterle di essere per tutti Madre, e per allenarsi nell’arte insegnata dal Maestro, quella di lavare i piedi gli uni agli altri. La Chiesa è germoglio, piccolo gregge, che sostando fedele ai piedi dello sguardo e del cuore del Signore morto per noi ne custodisce la promessa di resurrezione e avvia la catena affinché tornino le folle, si convertano i pagani, scoprano i potenti di essersi sbagliati ad uccidere l’amore.

In questi tempi di dispersione, dunque, la Chiesa siamo noi se restiamo ai piedi di ogni crocifisso di cui Gesù ha portato il dolore. Lo possiamo fare in una cura amorevole fatta di gesti e parole semplici. Ma lo possiamo fare anche accogliendo, forse con le stesse lacrime di Pietro, le nostre intime ferite e i nostri cuori squarciati. L’edificio chiesa oggi è spoglio (anzi, spogliato, come Gesù) e nudo nei suoi abbellimenti e in tutto ciò che sa di vita, per ricordarci che anche noi abbiamo bisogno di lasciarci spogliare delle vesti dell’orgoglio e dell’accidia, che mascherano la nostra paura della morte. Siamo spogliati di sicurezze, gesti, riti per lasciar penetrare nell’intimo la carezza della Madre, che si prepara ad avvolgerci come il Figlio in un lenzuolo di tenerezza e di misericordia. Sono le fasce del nascituro, di colui che entra in una vita nuova.

Restiamo, come lei, spogliati di tutto. Ma con accanto una Madre, un fratello, un povero. Lì ci accorgeremo che la Chiesa c’è, più viva che mai, e unita come la tunica del Signore, “tutta di un pezzo da cima a fondo” (19,23). Non perché rannicchiata nei propri edifici, ma perché sparpagliata a vegliare ai piedi del dolore del mondo dentro tutte le case della nostra umanità ferita ed amata fino alla fine da Dio. Questa è la potenza della Parola che si compie, che ci fanno uno in Lui. Le altre sono vuote parole.

Padre  Luca Garbinetto

Pia Società San Gaetano

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12 aprile 2020 7 12 /04 /aprile /2020 20:49

 

http://www.vocazionicremona.it/2016/07/12/tipologie-di-vocazioni/

 

 

 

TIPOLOGIE DI VOCAZIONI

 

Anche qui, non bisogna pretendere il ritratto perfetto della propria situazione.

Quelli che seguono sono solo alcuni tratti, schizzi appena abbozzati di una prima classificazione, magari un po’ rozza, ma non troppo lontana dal vero, che può aiutare ad orientarsi nel capire come Dio chiama nel mondo di oggi.


Vocazione adulta.


Vista come una mosca bianca fino a pochi anni (o decenni) fa, oggi è assolutamente la tipologia maggioritaria, se non esclusiva.

Si tratta di persone di venti, trenta o quarant’anni che hanno già percorso un tratto di vita ricco e intenso, magari laureandosi o avendo alle spalle diversi anni di lavoro.

Può darsi che la vocazione abbia già fatto capolino, in passato, sotto mentite spoglie, e magari non sia stata riconosciuta o assecondata, ma può darsi benissimo che il Signore si stia facendo sentire proprio adesso, per la prima volta.

Queste persone, in genere, hanno tenacemente cercato di applicare al loro ambito quotidiano (università, lavoro, volontariato, amicizie) i valori cristiani, ma ora percepiscono come tutto questo non basta più e che viene richiesto loro una specie di “cambio di livello”: Dio non può più essere una dimensione a fianco di altre, seppure onorata e visitata, ma deve diventare la piattaforma e lo sfondo che dà l’orientamento a tutto il resto.

La vita condotta finora viene percepita come giusta, una tappa necessaria, ma anche, in una certa maniera, un capitolo ormai concluso, come se fosse servito da preparazione a qualcos’altro che non è ancora chiaro, ma sembra si stia affacciando.


Vocazione in età infantile


Piuttosto frequente nel passato, perché facilitata dalla presenza di seminari minori o, comunque, da una società sostanzialmente cristiana, oggi è numericamente molto ridotta, ma la sua qualità non è inficiata e, anzi, piuttosto è accresciuta dalla scarsità numerica.

Un bambino, o un ragazzo, sia maschio che femmina, grazie agli insegnamenti cristiani vissuti in famiglia, ad una felice esperienza in parrocchia o in oratorio, ad una vita di preghiera seria e costante, ad un servizio liturgico compiuto in qualità di ministrante, percepisce la grandezza e la bontà di Dio e della vita che Egli propone.

Pur mancando, data la giovane età, di una visione anche solo abbozzata del mondo adulto e della società, sente dentro di sé che nulla può essere preferibile a Dio e alla Sua proposta.

Questa chiamata precoce, come quella adulta, del resto, presenta punti di forza e di debolezza.

Tra i primi, la genuinità ed il coraggio con cui viene accolta, senza tentennamenti e dilazioni, senza aspettare che cosa la vita potrà offrire in seguito allo scopo di fare, magari, qualche “calcolo di opportunità”.

Tra i secondi, la necessità di ri-verificare, ad ogni nuova stagione della vita, le motivazioni originarie, non perché non fossero vere, ma perché vanno messe a confronto con fatti e situazioni nuove che non devono spegnere la fiammella, ma renderla più intensa e robusta.


Vocazione maturata in contesti lontani dalla fede.


Una sorta di “reazione” di fede, di fronte ad ambienti laici o di aperta opposizione a valori religiosi, non è necessariamente una reazione sbagliata, da guardare con sospetto, come “scintilla” della vocazione.

L’importante è che non sia l’unica sua componente e che sia sottoposta al vaglio di un discernimento vocazionale guidato da una persona esperta (il direttore spirituale di un seminario o di un ordine religioso, un sacerdote di fiducia, una figura religiosa esperta in materia spirituale…).

Il Signore, per spronare qualcuno a lavorare nella Sua vigna, a volte può anche far percepire con particolare intensità la desolazione spirituale che regna in ambienti non abitati da Lui.

Un successivo equilibrio andrà comunque raggiunto successivamente, perché questi ambienti non possono essere depennati dal proprio orizzonte, ma re-inclusi alla luce di una fede più matura, magari allo scopo di evangelizzarli nella maniera più adatta alle circostanze e alla forze disponibili.


Vocazione maturata in ambito oratoriano o parrocchiale


Dando una mano in parrocchia, ispirandosi alla figura di un sacerdote o di una religiosa, un / a ragazzo / a può maturare il desiderio di incarnare uno stile che appare buono e che richiama direttamente l’insegnamento di Gesù.

Il desiderio di fare del bene, di giovare a qualcuno, la soddisfazione di compiere gesti che hanno diretta attinenza con il Vangelo sono un’ottima disposizione che è da incoraggiare e nutrire senza dubbio.

Questo desiderio, certamente ispirato da Dio, andrà poi aiutato a maturare e ad allargarsi tenendo conto anche delle altre dimensioni che assumeranno un’importanza crescente nella vita del ragazzo: scuola, amici, sport, altre esperienze e testimonianze (o, anche, contro – testimonianze).


Vocazione maturata all’interno di un gruppo di preghiera o movimento ecclesiale.


Oggi è un caso piuttosto frequente che la chiamata di Dio si faccia strada all’interno di un percorso spirituale maturato dentro un movimento o associazione (Azione Cattolica, Scout, Rinnovamento nello Spirito, Neocatecumenali, Focolarini, Comunione e Liberazione o altri).

Si tratta di vocazioni adulte che hanno tratto grande beneficio da questo tipo di appartenenza, che ha fatto sentir loro, oltre che l’attrattiva della fede, anche il calore di una comunità.

Il passo successivo consisterà, all’interno del percorso di maturazione vocazionale che continua, nel concepire la comunità come una famiglia sempre più ampia, la Chiesa a livello universale e la parrocchia a livello locale, il che non contrasta necessariamente con il cammino da cui si proviene.


Vocazione maturata all’interno di una conversione


Consiste in un riavvicinamento alla fede, avvenuto dopo anni di lontananza o di indifferenza, all’interno del quale si percepisce una sorta di “imperativo” a dare anche la propria vita a Dio, come naturale conseguenza e sbocco del cambio radicale e repentino che sta avvenendo all’interno della persona.

Trattandosi di due fenomeni in uno (conversione e vocazione) richiede un surplus di discernimento attuato con una persona competente (direttore spirituale).


Vocazione intellettuale


E’ molto raro, ma può succedere, che l’incontro con Dio avvenga al termine di un percorso filosofico, o intellettuale, magari dopo aver constatato che esso non fornisce tutte le risposte che si cercavano.

Si affaccia allora la presenza di Dio che, come alternativa a questo vicolo cieco, fa balenare la Sua proposta di vita, in grado di appagare non solo la mente, ma anche il cuore.

Questo tipo di vocazione è più solida dal punto di vista teoretico e dispone di ottime basi culturali di partenza, ma è tutta da verificare e irrobustire sul piano relazionale e pastorale, nel caso ci si stia orientando verso una risposta all’interno dell’ambito diocesano.

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12 aprile 2020 7 12 /04 /aprile /2020 07:15

 

https://www.radiortm.it/2020/04/10/il-senso-della-pasqua-al-tempo-del-covid-19di-direttore/

 

Il senso della Pasqua al tempo del Covid-19…di Direttore

“E’ risorto, non è qui.” Sono le parole del vangelo che annunciano la risurrezione di Gesù. In questo tempo emergenziale che stiamo vivendo vorrei riflettere su ciò che questa festa cristiana, che è appunto la Pasqua, ha implicato ed implica nella storia che viviamo.
L’evento pasquale, sia per i credenti che non, è, dal punto di vista teologico uno “scandalo”, e lo scandalo è l’inciampo, qualcosa che trovi sulla strada in modo imprevisto e ti fa cadere. E che cosa è che cade, che non regge, davanti a Gesù?
Non regge il fatto che gli ebrei si trovano davanti un Dio che muore in croce (la crocifissione era la morte dei maledetti da Dio) rimanendo così scandalizzati, sentendosi offesi a livello di ragione, così da dire: tu, Gesù, non puoi essere Dio! Da qui la seconda parola: “stoltezza”. Solo uno stolto, uno stupido, secondo la mentalità ebraica, poteva pensare che la salvezza potesse venire da un Dio crocifisso; ebbene anche l’uomo del nostro tempo è portato a pensare la stessa cosa, affermando: non può che essere “stoltezza” il pensare che la salvezza, per uscire da questo tempo di pandemia, possa venire dall’insegnamento e dal vissuto di un Dio crocifisso. Chiaramente nessuno aspetta il miracolo divino, che non sappiamo se è nei progetti di Dio onnipotente, tuttavia è certo, atteso che il covid-19 sta facendo molto male seminando morti, che il Dio di Gesù Cristo ci chiede di riflettere su molte cose, uscendo dalle retoriche. E una riflessione etico-teologica Gesù la esige, partendo anzitutto dai termini che spesso utilizziamo, cioè “salute” e “malattia”.
Questi due termini sono come due vasi comunicanti e intendono esprimere la condizione in cui uno si trova a vivere. Il termine “Salus” significa salute, nel senso sanitario del termine, e significa anche salvezza, nel senso etico-spirituale e soprattutto religioso. Dunque la salute può intendersi in senso puramente biologico, e quando giunge una malattia questa ne turba o modifica – a causa di agenti interni o esterni – l’integrità biologica e fisica, ma bisogna anche andare oltre, e dire che essa è una “qualità umana e spirituale”, non soltanto del corpo, ma di tutta la persona nel suo essere anima, spirito e corpo. Ma anche in altri campi non strettamente religiosi, c’è chi questa riflessione l’ha posta. Chiediamoci perché il poeta satirico latino Giovanele (60 – 135ca. d.C.) scriveva “Orandum est ut sit mens sana in corpore sano”? Cosa voleva dire? Voleva asserire che la mente è sana quando lo è ( e se lo è) il corpo. Ma la mente può essere sana anche quando il corpo non lo è pienamente. L’antico poeta latino voleva in fondo dire che la salute della mente è, insieme a quella del corpo, dono divino, piuttosto che semplice conseguenza della salute del corpo, e che quindi la salute non è soltanto il benessere del corpo, ma anche l’equilibrio e la serenità della mente.
Così anche l’antico poeta greco Pindaro (520-442 ca a.C): perché questi celebra nel giovane vincitore di una gara olimpica non semplicemente il vigore fisico ma anche la sua “virtù”(“aretè”)? Perché la salute dell’uomo in quanto tale, non è commisurata esclusivamente alle sue prestazioni fisico-atletiche.
E’ molto importante, allora, capire che nell’orizzonte di una visione integrale e globale dell’uomo esiste una “concezione etico-spirituale e religiosa ” della salute, intesa come equilibrio e mutua integrazione di tutti i fattori che costituiscono l’essere uomini: corporali, emozionali, psichici, mentali, sociali e spirituali. Mi sembra utile riferire, a riguardo, anche la definizione di salute data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): “La salute è uno stato di completo benessere(“wellbeing”) fisico, mentale e sociale, e non consiste soltanto in una assenza di malattia e di infermità”.
Ecco, nel contesto attuale nel quale viviamo, il senso della Pasqua è allora tutto nell’accoglimento di Gesù crocifisso nel corpo e nello spirito ( “La mia anima è triste, afferma Gesù nell’orto degli ulivi!), non solo, poi, Gesù risorge nello spirito ma anche nel corpo; da qui, pertanto, l’importanza della corporeità umana e la considerazione del fatto che “le minacce alla salute del corpo – come afferma l’Osservatorio internazionale per la Dottrina sociale della Chiesa – inducono cambiamenti negli atteggiamenti, nel modo di pensare, nei valori da perseguire. Essi mettono alla prova il sistema morale di riferimento dell’intera società. Esigono comportamenti eticamente validi, denunciano atteggiamenti egoistici, disinteressati, indifferenti, di sfruttamento. Evidenziano forme di eroismo nella comune lotta al contagio e, nello stesso tempo, forme di sciacallaggio di chi approfitta della situazione”.
Fare dunque gli auguri di Pasqua, in questo tempo di emergenza sanitaria, è paradossalmente invitare gli altri a vivere l’etica pasquale divenendo, come Gesù, “scandalo” e “stoltezza” per la mentalità del nostro tempo, tutta radicata nella potenza e nella forza piuttosto che nell’amore, nell’avere più che nell’essere, nell’apparire più che nel donare, nella tentazione di non rispettare regole, norme sociali, giuridiche, ambientali che sono per il bene di tutti, proprio come ci viene chiesto adesso in quanto la salute non è solo uno dei diritti fondamentali dell’uomo, di ogni uomo senza alcuna discriminazione, ma implica anche un dovere di solidarietà sociale.
Paradossalmente in questo tempo di epidemia sentiamo ancora più forte il bisogno di vivere la Pasqua, perché tutti avvertiamo che il nostro cuore è una tomba ricoperta da un masso sepolcrale; ebbene la nostra fede in Cristo Risorto ha il potere di rotolarlo via, e di far tornare il nostro cuore nuovamente un giardino nel quale fioriranno alberi di pace, di amore, di gioia, di speranza. In questa Pasqua allontaniamo, dunque, ogni pensiero che impedisce a Gesù di rotolare questo masso e di farlo risorgere dentro il nostro cuore.
Con la Pasqua abbiamo la possibilità di riaprici la strada di una nuova esistenza, nella quale l’evento della risurrezione non sarà una mera verità da credere, ma una esperienza da vivere ogni giorno e da celebrare ogni domenica. La Pasqua di risurrezione è insomma non soltanto un evento da celebrare ma da vivere e praticare. Chi crede e vive nel Risorto, diventa prova tangibile che Gesù è davvero risorto. La nostra conversione, in buona sostanza, è la prova che Gesù è risorto ed è vivente, che lui non appartiene al regno dei morti ma dei vivi; solo il nostro lasciarci cambiare e ogni giorno convertire da Gesù, diventa segno dimostrativo della risurrezione del nazareno. Il vero cristiano allora turba, diventa scomodo perché non accetta il male e l’ingiustizia, per cui si fa “scandalo”, “pietra d’inciampo” come il Cristo, diventa un perseguitato.
Quando ognuno di noi non guarda la pagliuzza nell’occhio dell’altro, risponde al male con il bene, all’odio con l’amore, alla vendetta con la misericordia; quando vive la solidarietà verso il prossimo, si impegna per la giustizia, agisce nel rispetto della legalità, allora diventa una “persona pasquale” che testimonia che Gesù è veramente risorto, che Gesù nel suo cuore ha ribaltato la pietra sepolcrale, trasformando in luce le tenebre e in vita ogni germe di morte.
Augurare Buona Pasqua è l’invito ad essere persone credenti che riescono a testimoniare che laddove sembra esserci solo fallimento, dolore, isolamento, morte e sconfitta, proprio lì c’è, invece, tutta la potenza dell’Amore sconfinato di Dio, perché la Croce è espressione di amore e l’amore è la vera potenza che si rivela proprio in questa apparente debolezza. La risurrezione di Gesù è l’invito all’umanità ad accogliere lo “scandalo e la stoltezza della croce” per rendere il mondo più umano e fraterno.

 

DOMENICO PISANA, teologo morale, poeta   scrittore e saggista, è nato nel 1958. Vive ed opera a Modica. Ha conseguito il Dottorato in Teologia Morale presso l’Accademia Alfonsiana della Pontificia Università Lateranense di Roma. E’ attualmente  docente formatore in assegnazione da parte del  Ministero  dell’Istruzione e del’Università  presso l’ADR, Associazione nazionale dei docenti di religione.  Ha insegnato Etica Professionale, Morale Fondamentale e Bioetica nell’Istituto Superiore di Scienze Religiose “G. Maria Tomasi” di Ragusa. Insegna Teologia Morale nella Scuola Teologica di base della Diocesi di Noto.  E’ giornalista e  direttore responsabile dell’emittente radiofonica Radio Trasmissioni Modica, componente dell’ATISM, Associazione Teologica Italiana per lo studio della Morale. Ha collaborato con la rivista di Letteratura “Avanguardia”, con la rivista di Letteratura e Teologia “Oltre il muro” ed è Presidente del Caffè Letterario “Salvatore Quasimodo” di Modica. Svolge cicli di lezioni in corsi di formazione pedagogico-didattica, seminari di studi e conferenze in convegni su temi di letteratura e teologia con studi su Quasimodo, Montale e sulla poesia dialettale e religiosa.  
Violapolvere - Anima - YouTube
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11 aprile 2020 6 11 /04 /aprile /2020 20:18

 

 

http://www.cdbsanpaolo.it/euc180404.html

 

 

 

COMUNITA' CRISTIANA DI BASE

S. PAOLO - ROMA

 

 

ASSEMBLEA EUCARISTICA DEL 18 Aprile 2004

 

I segni della resurrezione di Gesù

Letture: Atti (5,12-16), Apocalisse (1,9-11 12-13 17-19), Giovanni (20,19-31)

 

Tra le letture di oggi quella che di più ha stimolato la riflessione del gruppo è il Vangelo di Giovanni, che racconta l’apparizione di Gesù ai discepoli e a Tommaso.

Più che sui dubbi di Tommaso – peraltro comprensibili - ci siamo soffermati a riflettere su come i discepoli riconoscono Gesù.

Il loro Maestro è risorto, ma il suo corpo di risorto porta ancora su di sé i segni della violenza e della croce: è proprio attraverso quei segni, impressi nelle sue mani e sul suo fianco, che i discepoli lo riconoscono.

 

I Vangeli ci raccontano anche di altre apparizioni di Gesù dopo la sua morte.

Ci siamo interrogati sul significato di queste apparizioni e ci siamo chiesti cosa avessero in comune.

 

E’  ancora il Vangelo di Giovanni che ci racconta la prima apparizione di Gesù, dopo la sua resurrezione.

Maria di Magdala era rimasta a piangere vicino alla tomba, l’aveva trovata vuota e non sapeva dove avessero portato il corpo di Gesù.

“Mentre parlava si voltò e vide Gesù in piedi, ma non sapeva che era lui.

Gesù le disse: - Perché piangi? Chi cerchi?

Maria pensò  che era il giardiniere e gli disse: - Signore, se tu l’hai portato via dimmi dove l’hai messo, e io andrò a prenderlo.

Gesù le disse: - Maria!

Lei subito si voltò e gli disse: - Rabbunì! (che in ebraico vuol dire: Maestro!) (Giovanni 20,14-16).

 

Maria dunque non riconosce Gesù vedendolo, né riconosce la sua voce.

E’  solo quando gli sente pronunciare il suo nome che riconosce in quell’uomo il suo Rabbunì, il suo Maestro.

Gesù la chiama: - Maria!

E in quel sentirsi chiamata per nome, Maria ritrova il suo rapporto con Gesù, si sente riconosciuta e subito lo riconosce. 

 

Nel racconto di Luca, due discepoli sono in viaggio verso Emmaus, quando Gesù si unisce a loro.

Camminano insieme e parlano di ciò che era successo in quei giorni e della crocifissione di Gesù.

Anche stavolta i discepoli non riconoscono il Maestro finché, arrivati a destinazione, non giungono in una locanda per mangiare.

“Poi si mise a tavola con loro, prese il pane e pronunciò la preghiera di benedizione; lo spezzò e cominciò a distribuirlo.

In quel momento gli occhi dei due discepoli si aprirono e riconobbero Gesù” (Luca 24,30-31).

 

Un’altra apparizione avviene in Galilea, sulla riva del lago Tiberiade, dove i discepoli erano andati a pescare.

“Uscirono e salirono sulla barca.

Ma quella notte non presero nulla.

Era già mattina, quando Gesù si presentò sulla spiaggia, ma i discepoli non sapevano che era lui.

Allora Gesù disse: - Gettate la rete dal lato destro della barca e troverete pesce.

I discepoli calarono la rete.

Quando cercarono di tirarla su non ci riuscivano per la gran quantità di pesci che conteneva.

Allora il discepolo prediletto di Gesù disse a Pietro:

- E’ il Signore!

Quando scesero dalla barca videro un fuocherello di carboni con sopra alcuni pesci.

C’era anche pane. Gesù disse loro: - Portate qui un po’ di quel pesce che avete preso ora.

Simon Pietro salì sulla barca e trascinò a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci .

Erano molto grossi ma la rete non s’era strappata.

Gesù disse loro: - Venite a far colazione.

Ma nessuno dei discepoli aveva il coraggio di domandargli: - Chi sei?

Avevano capito che era il Signore.

Gesù si avvicinò, prese il pane e lo distribuì; poi distribuì anche il pesce. (Giovanni 21,3-7 9-13)

 

In nessuno di questi racconti i discepoli riconoscono Gesù dal suo aspetto: non dalle sue sembianze, non dalla sua voce, non dal suo modo di camminare e parlare.

Lo riconoscono da altro: dai segni che la croce ha lasciato impressi sul suo corpo, dal modo in cui si rivolge a Maria, chiamandola per nome, dal quel segno, a lui così caro, dello spezzare il pane.

 

E’ un ri-conoscersi che presuppone un conoscersi dal di dentro.

Solo Maria sa cosa significa per lei sentire il suo nome sulle labbra di Gesù, solo lei può capire il significato profondo di quel semplice momento, perché lo capisce dal di dentro della sua relazione con Gesù.

Quell’episodio, l’essere chiamata  per nome da uno sconosciuto, non è una prova inequivocabile della resurrezione di Gesù, ma per Maria di Magdala è tutto, è più di qualsiasi impronta digitale: il suo Maestro è davvero risorto e sarà lei ad annunciarlo agli altri discepoli.

 

Lo stesso si può dire degli altri racconti.

Chi, se non i suoi discepoli, poteva riconoscere Gesù dal gesto dello spezzare il pane?

Chi se non loro che lo avevano visto condividere, spezzare la sua vita fino ad affrontare la flagellazione, l’umiliazione e la morte?

Solo loro conoscevano il segreto che si nascondeva dietro quel gesto apparentemente banale, gesto che racchiudeva in sé tutta la vita di Gesù e con il quale il Maestro aveva chiesto, nell’ultima cena, di ricordarlo.

 

Nell’introduzione all’articolo di Giuseppe Barbaglio su Confronti leggiamo: “La resurrezione di Cristo non è un fatto da scoprire con l’indagine storica, ma un evento che si coglie nella fede e che vede all’opera il Dio di Gesù che non lascia alla morte la parola ultima”.

 

Se i racconti sulle apparizioni di Gesù non sono spendibili come “prove” della sua resurrezione in un’indagine storica, risulta tuttavia difficile pensare che siano stati costruiti al fine di dimostrare quella resurrezione.

Se non altro perché, a voler costruire delle prove, avrebbero potuto fare di meglio.

Basti pensare all’annuncio della resurrezione da parte delle donne: a quale scrittore sarebbe mai venuto in mente di dimostrare un evento chiamando le donne a testimoni, affidando cioè la testimonianza di quell’evento a persone non credibili e non-testimoni per eccellenza, quali erano le donne ai tempi di Gesù?

Questo ci porta a pensare che quei brani del Vangelo – per poco o tanto che dicano -  raccontino ciò che i discepoli e le discepole di Gesù hanno davvero visto e udito.

 

Barbaglio scrive sul suo libro “Gesù ebreo di Galilea”: “La morte orrenda sul patibolo non è stata l’ultima parola pronunciata sul destino di Gesù; questa va assegnata alla fede di Pietro e dei suoi compagni che non l’hanno rinchiuso nel museo dei ricordi nostalgici e delle venerate memorie, ma l’hanno creduto e annunciato più che mai vivo e operante, certo non nella maniera in cui lo era stato in passato in Galilea e in Giudea, bensì al modo in cui Dio stesso si fa presente e operante nella storia e che solo la fede coglie e può cogliere”.

 

Ma torniamo ai segni impressi sul corpo di Gesù, attraverso i quali Tommaso e gli altri discepoli lo riconoscono.

Al prodigio di Dio, che ha resuscitato Gesù dal regno dei morti, manca qualcosa: rimangono da sanare quelle piaghe.

Gesù è insieme il risorto e il crocifisso, quasi a voler rimanere ostaggio dei crocifissi e delle crocifisse della storia.

Per sanare quelle piaghe bisognerà liberare i tanti poveri Cristi dalle croci imposte a loro, come a Gesù, dai poteri politici e religiosi di tutti i tempi.

 

Di fronte al passaggio ultimo la nostra mente si ferma davanti al mistero: non è capace di valicare quel confine.

Altro non possiamo fare se non affidare le vite delle persone che abbiamo amato e le nostre nelle mani del Signore, il Creatore della vita, sapendo con questo di affidarle in buone mani.

La resurrezione finale è il miracolo che tocca a Dio.

A noi toccano le piccoli grandi resurrezioni, che furono capaci di compiere i discepoli e le discepole di Gesù, seguendo il suo messaggio, portando la speranza dove non c’era speranza e spezzando il pane come Gesù aveva loro insegnato.

Lo dobbiamo ai crocifissi e le crocifisse del nostro pezzo di storia.

 

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11 aprile 2020 6 11 /04 /aprile /2020 15:10

 

https://www.arcidiocesibaribitonto.it/pubblicazioni/articoli-on-line/sabato-santo-il-giorno-dell-attesa

 

Sabato Santo, il giorno dell'attesa

 
Una riflessione di Alessandro D'Avenia sul giorno più "femminile" dell'anno: «La morte e il silenzio sono una sconfitta per gli uomini, ma le donne sanno che nell'attesa c'è qualcosa di diverso.... ». Perché portano in grembo la vita per nove mesi
 

Benozzo Gozzoli, Donne al sepolcro, particolare, 1440-1441, Firenze, Convento di San MarcoIl Sabato Santo è il giorno più femminile dell’anno, perché è il giorno dell’attesa. Solo la donna sa cosa vuol dire attendere, perché porta in grembo la vita per nove mesi e la si dice per questo in dolce attesa. Attesa e attenzione hanno la stessa radice, per questo le donne sono attente ai dettagli sino a rischiare di perdersi in essi, perché ogni talento ha la sua ombra. Solo la donna sa cosa vuol dire tessere la vita, prendersene cura e donarla al mondo. Solo la donna conosce questo accadere in lei e ne stupisce nel corpo e nell’anima. Il Sabato Santo è infatti il giorno delle donne. Alle donne è affidato il compito di prendersi cura, cioè di 'attendere' al corpo di Cristo, prima che inizi il sabato ebraico: con i profumi e le essenze ne preparano la sepoltura provvisoria, in tutta fretta, in attesa di quella definitiva dopo l’obbligatorio riposo sabbatico. In qualche modo anticipano, inconsapevolmente, la risurrezione con quel gesto umanissimo della mirra e dell’aloe, che avevano funzione non solo di profumare ma di rallentare la corruzione del corpo. È proprio della donna dare la vita, è proprio della donna profumare e preservare dalla corruzione, è proprio della donna prendersi cura del corpo. Ed è a una donna che viene dato il lieto annuncio della risurrezione, della vita preservata dalla morte che si scopre sconfitta, quando credeva ormai di aver vinto la partita su un cadavere, che è il Corpo più vivo della storia umana. Le parole di Luca, apparentemente soltanto descrittive, svelano il motivo per cui alle donne per prime è dato l’annunzio, loro così attente a quel corpo perché in attesa di quel corpo: «Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea osservarono la tomba e come era stato deposto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo secondo il comandamento. Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato».

Il silenzio del sabato per gli uomini è sconfitta e disfatta. Tutto è finito. Per gli uomini che cercano sempre soluzioni efficaci ai problemi, la morte non ha soluzione: Cristo è stato un’illusione, non è la soluzione al problema, che differenza vuoi che facciano gli aromi e gli oli profumati (solo Nicodemo fa eccezione, proprio quello a cui nottetempo Gesù aveva spiegato che bisogna rinascere dall’alto). Per le donne c’è qualcosa di diverso, intuiscono che Cristo è come loro, che danno ai loro figli il loro sangue e il loro corpo, perché i figli abbiano la vita. Il punto per loro non è trovare la soluzione al problema, ma accompagnare chi ha il problema, non lasciarlo solo. Il chicco di grano muore a sé, come chi è in dolce attesa, per dare frutto: la donna questo lo sa nel corpo e quindi anche nell’anima, il suo dischiudersi è dolore che dà la vita. L’uomo invece vede la morte con freddo realismo: senza soluzione, e basta. Altro che risurrezione. Anche nella nostra vita molte cose devono morire (e noi moriremo), perché appartengono al mondo vecchio, mortalmente ferito dal peccato.

Ma su questo se ne innesta uno nuovo, inaugurato da Cristo, che fa risorgere la vita e la restituisce intatta, prendendosene cura come fa una donna incinta: il realismo del cristianesimo non ha nulla a che fare con le favole. Si muore realmente e con tutte le sofferenze del caso, ma si risorge altrettanto realmente, per intervento del Padre a cui la vita è affidata. Questa buona notizia, l’unica buona notizia nel naufragare continuo delle cose umane, è data a una donna, a Maria di Magdala, perché sono le donne che sanno dare la vita e sono loro che devono trasmettere agli uomini il messaggio che la vita è ricominciata. Sono loro ad attendere preparando aromi e oli, non sono in fuga, c’è ancora qualcosa da fare per il corpo di Cristo: preparano la loro umanissima ricetta di risurrezione.

Tutto questo avviene nel giardino del sepolcro, così come nel giardino la donna aveva mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male, decidendo che poteva essere lei a dare la vita in proprio, senza il consenso di Dio, e quindi avrebbe potuto anche non attendere la vita, non attendere alla vita. Nello stesso giardino tutto viene riparato: «Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio». Quella donna si era alzata prima dell’alba, probabilmente dopo ore insonni, ed era andata di fretta al sepolcro. Ecco perché il sabato è donna, perché la donna ha atteso trepidante tutto il sabato e quando può scatta in avanti, corre in fretta, come una molla compressa, per curare la vita, anche quella più ferita, si alza quando è ancora buio, per nutrire la vita, come le madri che allattano nel cuore della notte.

Non si cura del fatto che il sepolcro è chiuso da una pietra che non potrà mai spostare, a lei quello che interessa è stare il più vicino possibile al suo amore, essere lì presente, fisicamente. Proprio a lei, innamorata folle, allora viene concesso il privilegio di essere chiamata per nome («Maria!») dal risorto, e così riconoscerlo. Una nuova vita viene attesa dagli uomini, scegliendo il nome che ne inaugurerà l’inedito essere al mondo.

La nuova vita di Cristo risorto si mostra pronunciando il nome di Maria come nessuno lo ha mai pronunciato, con un tono tale che sentiamo risuonare tutta la meraviglia del nostro essere, che non solo è amato così come è, ma è voluto dall’eternità e per l’eternità proprio da chi non può morire più, perché è risorto una volta per tutte. Come quando lo sposo dice alla sposa nel Cantico dei Cantici: «Sei tutta bella», e quel 'tutta' non indica solo la totalità del corpo ma la totalità del tempo, bella in ogni tempo, passato presente e futuro. Lei che era andata a prestar cura a un corpo senza vita si ritrova a essere chiamata per nome, per prima, dalla Vita stessa, che non può più morire. E la sua vita rifiorisce, dall’alto. Lei ora sa che non può più appassire, grazie a quella Vita che pronuncia il suo nome come nessun amore umano potrà mai fare.

In quel giardino la donna che era in attesa, era in realtà la donna attesa. Lei che voleva in qualche modo ridare vita a quel corpo con i suoi profumi, rinasce dall’alto, a partire dal suo nome. Lei per prima viene a sapere la buona notizia, sin dentro al suo nome, perché piena di fede e di cure, che poi è lo stesso. Lei la prima a dare la notizia, la buona notizia, perché lei è la prima, vigile, scattante, ad aspettarla quella notizia per un intero trepidante malinconico sabato d’attesa.

Alessandro D'Avenia

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11 aprile 2020 6 11 /04 /aprile /2020 10:15

 

https://www.trekkingbiblico.com/lo-stile-di-gesu/

 

 

 

Lo stile di Gesù

 

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  • : RIABILITAZIONE POST MORTEM DI PADRE GINO BURRESI
  • : Riabilitazione post mortem di Padre Gino Burresi Firma la Petizione https://petizionepubblica.it/pview.aspx?pi=IT85976 "Sono dentro, donna o uomo che vive li nel seno di questa chiesa. Da me amata, desiderata e capita... Sono dentro. Mi manca aria, Aspetto l'alba, Vedo tramonto. La chiesa dei cardinali madri per gioielli, matrigne per l'amore. Ho inciampato e la chiesa non mi sta raccogliendo. Solitudine a me dona, a lei che avevo chiesto Maternità. E l'anima mia, Povera, Riconosce lo sbaglio di aver scelto il dentro e, Vorrei uscire ma dentro dovrò stare, per la madre che non accetta, Il bene del vero che ho scoperto per l'anima mia. Chiesa, Antica e poco nuova, Barca in alto mare, Getta le reti Su chi ti chiede maternità. Madre o matrigna, per me oggi barca in alto mare che teme solo di Affondare! Matrigna." Commento n°1 inviato da Giò il 2/04/2011 alle 14h27sul post: http://nelsegnodizarri.over-blog.org/article-la-chiesa-di-oggi-ci-e-madre-o-matrigna-67251291
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