La "balbuzie", la lotta con il silenzio
In questo articolo mi propongo di mettere in relazione il silenzio gestibile mediante il canto con il silenzio ingestibile mediante le balbuzie.
Un individuo che presenta una disfunzione vocale, volgarmente detta “Balbuzie”, è una persona che mentre sta parlando subisce un blocco nel fluire dell’eloquio; solitamente tale blocco si manifesta con una intromissione di silenzio più o meno lungo nella comunicazione linguistica che non permette, al balbuziente, di emettere le parole nel modo, nel momento e con la velocità che desidera.
Un individuo nel momento in cui balbetta è una persona in lotta con il silenzio. Tale lotta più sfociare in due direzioni distinte: nell’una la persona cerca di contrastare con le parole (la parola che non esce dalla bocca del balbuziente) il blocco che il silenzio gli impone; nell’altra direzione l’individuo cede al tacere e si immerge nel silenzio.
Un individuo che balbetta è sostanzialmente una persona che ha bisogno di più tempo per esprimersi in quanto è in lotta con i silenzi che intercedono all’interno della sua espressione linguistica.
“La manifestazione principale delle Balbuzie è una anomalia del normale fluire della cadenza dell’eloquio. … questa anomalia è caratterizzata da frequenti ripetizioni o prolungamenti di suoni o di sillabe. Possono esservi diversi altri tipi di anomalie del fluire dell’eloquio, comprese interiezioni, interruzioni di parole (pause all’interno di una parola), blocchi udibili o silenti (pause colmate o non colmate nel discorso), circonvoluzioni (cioè sostituzioni di parole per evitare parole problematiche), parole emesse con eccessiva tensione fisica, e ripetizione di una intera parola monosillabica. … L’entità dell’anomalia varia da situazione a situazione, e spesso è più grave quando vi è una speciale pressione a comunicare (per esempio fare una relazione a scuola, un colloquio per un lavoro). La Balbuzie è spesso assente durante la lettura orale, il canto o il colloquio con oggetti inanimati o con animali”[1].
Dal DSM IV abbiamo appreso che un balbuziente riesce a vincere la sua lotta con il silenzio utilizzando (tra le varie strategie) il canto; perciò quando si esprime cantando, la sua balbuzie scompare.
Il cantante utilizza una modalità di espressione linguistica che fondamentalmente si avvicina di molto alla modalità del fluire rallentato dell’eloquio del balbuziente; tra le due espressione linguistiche c’è una differenza fondamentale: il cantante, nell’atto di cantare, può volontariamente aumentare o diminuire la velocità di emissione delle parole; egli, fondamentalmente, ha il controllo sul tempo di emissione delle parole, quindi non è in lotta con i silenzi che potrebbero ammutolirlo.
Di solito le parole nelle canzoni vengono espresse in modo rallentato, sembra quasi che tale rallentamento dell’espressione vocale (insieme alla musica strumentale) dia alla canzone quel senso di armonia, di bellezza, di stupore; in sostanza sembra che il rallentamento nel verbalizzare le parole
(volontariamente utilizzato nelle canzoni, per esempio nella canzone intitolata “Canzoni” scritta da Amedeo Minghi e cantata per la prima volta da Mietta nel 1989 a Sanremo in occasione del festival della canzone italiana dell’anno 1989) inserisca, tra le parole e nelle parole stesse, dei confini fatti di silenzi che danno all’intera frase un impronta diversa dal normale.
Quando si pronuncia una frase con parole in modo rallentato (come nelle canzoni) l’ascoltatore, durante l’attesa dell’esposizione della frase in senso compiuto, comincia a prevedere vari significati fantasticando vari finali. È poi con l’ascolto dell’intera frase espressa lentamente che l’ascoltatore elimina tutti quei significati fantasticati che non hanno nulla a che vedere con il significato che il parlante (cantante, balbuziente) voleva comunicare.
Allora il cantante, con il suo parlare lento, può essere considerato un incantatore che poi disincanta.
Il cantante, nell’atto di cantare, incanta e disincanta; riesce a dare libero spazio all’immaginazione dell’ascoltatore (incanta) ma poi inchioda tale immaginazione in un determinato senso compiuto (disincanta).
Tutto ciò riesce a farlo inserendo dei silenzi, delle attese nel fluire delle parole.
Sembra quasi che il cantante, con tale modalità di espressione, intenda comunicare il potere di gestire il fluire dell’eloquio, e quindi di saper gestire il silenzio tra le parole, perciò di saper incantare e disincantare.
Anche il balbuziente, con la sua involontaria gestione del silenzio nel fluire dell’eloquio, può essere considerato un incantatore che disincanta.
Saper gestire il silenzio significa nello stesso tempo saper gestire quel blocco che afferra il balbuziente che, non facendolo parlare in modo normale, lo fa essere un incantatore.
Il canto permette di gestire il silenzio ed il blocco e potrebbe essere considerato come quel composto che permette al balbuziente di non pietrificare come una Gorgone, ma di comunicare come Orfeo.
In mitologia Orfeo è il dio del canto.
“La parola canto è associata a incantamento; entrambe derivano dal latino incantare, che significa affascinare mediante operazioni magiche. Il latino carmen, canto, aveva in origine il significato di incantamento, sortilegio. Per tale ragione in latino per dire canto (nel senso di canzone) si usa il termine carmen quanto cantio, e per indicare incantesimo si possono usare sia cantio sia incantamentum, termini che esprimono entrambi l’uso di parole magiche al fine di incantare. Nel mito, Orfeo incantò le belve selvatiche con la sua lira e i suoi canti; sono noti i sortilegi operati attraverso il canto degli incantatori. Si constata effettivamente che al canto sono collegate delle impressioni di fascino, di sortilegio, di pace. Il canto calma, tranquillizza, rassicura, riposa. Esso ci permette di arginare un flusso emotivo in eccedenza che ci opprime o ci paralizza, consentendoci così di assimilare i nostri sentimenti”[2].
Orfeo era anche il possessore della lira.
In origine fu il dio Ermes a creare la prima lira da una tartaruga; tale strumento possedeva sette corde (alcuni mitografi sostengono le corde fossero nove come le nove Muse). Dopo averla creata Ermes consegnò la lira ad Apollo che a sua volta la consegnò ad Orfeo.
“Simbolo per eccellenza dell’arte poetica e musicale, assurta poi anche a emblema dell’armonia del mondo, la lira era considerata nella mitologia attributo di Apollo, delle Muse … e dei poeti e musici Orfeo, Lino, Museo. La sua invenzione era messa in relazione con diversi personaggi. Il racconto più celebre era quello che ne faceva un’invenzione del piccolo Ermes …egli, nato dall’aurora, a mezzogiorno suonava la lira. Uscito infatti dalla grotta in cui era appena nato, <la fuori trovò una tartaruga, e ne trasse gioia infinita: in verità Ermes fu il primo che creò una tartaruga canora>. Dopo averne estratta la polpa con una lama, <tagliati nella giusta misura steli di canna, li infisse nel guscio della tartaruga, perforandone il dorso. Poi, con la sua accortezza, tese tutt’intorno una pelle di bue; fissò due bracci, li congiunse con una traversa, e tese sette corde di minugia di pecora, in armonia fra loro. E quando l’ebbe costruito, reggendo l’amabile giocattolo, col plettro ne saggiò le corde, una dopo l’altra; quello sotto la sua mano diede un suono prodigioso…>. Successivamente il dio consegnò la lira ad Apollo in cambio della mandria che gli aveva appena rubato. Nelle mani di Apollo la lira diventa protagonista di diversi episodi del mito. In particolare è Apollo che la dona ad Orfeo, affidando poi alle muse l’incarico di insegnargli a suonarla. Da allora Orfeo sarà sempre rappresentato con la lira in mano, che lo rende inconfondibile nella iconografia”[3].
“…con lo strumento egli incantava, traendone divine armonie, non soltanto gli animali selvaggi, ma anche le rocce e gli alberi e gli oggetti inanimati sulle pendici dell’olimpo che si spostavano e lo seguivano per tener dietro al meraviglioso suono del suo aureo strumento”[4].
Il dio Ermes, dopo aver ucciso la tartaruga (il sacrificio della tartaruga può metaforicamente essere inteso come l’uccisione della lentezza del fluire dell’eloquio), la trasformò in una lira inserendovi nove corde in armonia tra loro.
Il gesto di Ermes, di innestare delle corde ad un guscio di tartaruga, può farci nascere la seguente riflessione: la musica, originariamente, nasce da una combinazione armonica dell’immaginario della lentezza (la tartaruga) con l’immaginario dell’ispirazione (della creazione artistica, della delicatezza); l’unione dei due immaginari (la tartaruga canora) dà vita ad una armonica lentezza espressa tramite la musica.
Abbiamo affermato che le nove corde della lira erano associate alle nove Muse che insegnarono ad Orfeo a creare, con quello strumento, una armonica lentezza.
Possiamo associare le nove corde, le nove muse, alle corde vocali. Con tale associazione possiamo affermare che “il canto del balbuziente” e la “tartaruga canora” metaforicamente esprimono lo stesso concetto. Nel balbuziente l’immaginario della lentezza non è in armonia con l’immaginario della delicatezza; ma, come abbiamo precedentemente affermato, è con il canto (l’armonica lentezza, la sizigia tra lentezza e delicatezza) che la disfunzione vocale svanisce.
In termini psicologici possiamo affermare che il canto sia la risultante di flussi psichici emotivi paralizzanti trattati con delicatezza.
In termini mitologici la sizigia da ristabilire nella psiche del balbuziente, per generare un armonico fluire del discorso, è quella tra la Medusa e le Muse.
“Le muse, secondo gli scrittori più antichi, erano le dee ispiratrici del canto, e secondo credenze successive divinità che presiedevano ai diversi generi poetici, alle arti, alla scienza ed a tutte le attività intellettuali. … in origine erano tre singolarmente chiamate Melete (la pratica), Mneme (il ricordo) e Aoide (il canto), con riferimento all’attività poetica. In epoca classica è più diffusa l’opinione che le Muse siano nove. Le muse erano invocate dai poeti come dee ispiratrici del loro canto, e tutti coloro che ardivano competere con loro nella musica e nella poesia venivano dalle dee severamente puniti. Così le sirene, che avevano osato gareggiare con le muse, furono da queste private delle piume delle loro ali, che le muse stesse usarono come ornamento sulla propria persona”[5].
“Esiodo vanta i loro benefici: esse accompagnano i re e dettano loro parole persuasive, le parole necessarie a placare le dispute e a ristabilire la pace fra gli uomini. Conferiscono loro il dono della dolcezza, che li rende cari ai loro sudditi. Allo stesso modo, dice Esiodo, basta che un cantore, cioè un servitore delle Muse, celebri le imprese degli uomini del passato, o gli dei, perché chi ha preoccupazioni o dolori li dimentichi all’istante. Il canto più antico delle Muse è quello che esse cantarono dopo la vittoria degli Olimpici sui Titani, per celebrare la nascita di un ordine nuovo”[6].
L’armonica combinazione della Medusa (pietrificazione) con le Muse (la dolcezza) dà vita ad una lentezza armonia (il canto).
“C’erano tre Gorgoni, chiamate Steno, Eurialo e Medusa. …solo l’ultima, Medusa, era mortale, essendo le altre due immortali. Generalmente si dà il nome di Gorgone a Medusa, considerata come la Gorgone per eccellenza. …la loro testa era circondata da serpenti; avevano grosse zanne simili a quelle dei cinghiali, mani di bronzo e ali d’oro che permettevano loro di volare. I loro occhi erano scintillanti e il loro sguardo così penetrante che chiunque le vedeva era mutato in pietra”[7].
Le tre Gorgoni “sono il simbolo del nemico da combattere. <Le deformazioni mostruose della psiche sono dovute alle forze pervertite di tre pulsioni: socievolezza, sessualità, spiritualità>. Eurialo sarebbe la perversione sessuale, Steno la perversione sociale, Medusa rappresenterebbe la principali di tale pulsioni: la pulsione spirituale ed evolutiva, pervertita in stagnazione vanitosa; <la colpevolezza derivata dalla vanagloriosa esaltazione dei desideri> può essere combattuta solo sforzandosi di realizzare <la giusta misura, l’armonia>, come è ben indicato dal fatto che solo il tempio di Apollo – dio dell’armonia – può offrire rifugio a chi è perseguitato dalle Gorgoni”[8].
La gorgone può essere vinta con l’armonia, Apollo è l’unico dio che può combattere la Medusa.
“Apollo è il dio del canto e della musica. …con le Muse Apollo è in strettissima relazione ed è chiamato Musagete, come guida e maestro del loro coro”[9].
Da quanto affermato possiamo sostenere che il Dio Apollo, il musagente, sia colui che gestisce la giusta misura, il giusto dosaggio, di lentezza e dolcezza, per creare la musica ed il canto.
Il canto del cantante e quello del balbuziente trovano fondamenti mitologici nell’immagine della tartaruga canora; mentre il primo utilizza il canto per creare armonica lentezza, il secondo lo utilizza per creare lentezza armonica.
[1] American Psychiatric Association, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV-TR), 2001, Masson, Milano, pag. 83.
[2] De la rocheterie, J., Il corpo nei sogni, 1984, Bompiani, Milano, 2001, pp. 43-44.
[3]Ferrari, A., Dizionario di mitologia, vol. 2, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma, 2006, pag. 40.
[4] Idem, vol. 2 pag 198.
[5] Idem, vol. 2 pag 128.
[6] Grimal, P., Enciclopedia della Mitologia, 1987, Paideia Editrice, Brescia, 2009, pp. 430-431.
[8] Chevalier, J., Gheerbrant A., Dizionario dei simboli, 1969, BUR, Milano, 2001, vol. 1, 525.
[9] Ferrari, A., Dizionario di mitologia, vol. 1, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma, 2006, pp. 103-104.
15/09/2010
Autore: Gianpio Colarossi
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