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6 dicembre 2018 4 06 /12 /dicembre /2018 06:14

 

 

 

http://www.basilicasannicola.it

 

SAN NICOLA E LA DOTE ALLE FANCIULLE POVERE

 

Alcuni scrittori sacri, dopo aver raccontato gli anni dell'infanzia e prima di riferire l'unico episodio antecedente all'episcopato, affermano che Nicola restò orfano e che ereditò una notevole ricchezza.  In epoca più tarda si disse che la morte dei genitori avvenne durante una pestilenza, in occasione della quale si erano messi ad aiutare quelli che ne erano stati colpiti.  Ma questa è soltanto una pia tradizione, senza il benché minimo fondamento storico. Mentre più che probabile appare l'altra affermazione, secondo la quale Nicola ereditò una grande somma, sia per la concordia delle fonti al riguardo, sia per lo sviluppo successivo dei fatti.
 
      Quando i suoi genitori si dipartirono da questa terra per tornare al Signore gli lasciarono molti beni sia in oro che in proprietà.  Pensando nel suo animo di avere Dio come Padre, si rivolgeva a Lui con gli occhi della mente e dell'anima.  Invocava fermamente la sua bontà affinché potesse disporre della sua vita e dei suoi beni secondo il Suo volere.  Diceva: «Insegnami a fare la tua volontà, poiché il Dio mio sei Tu».  Ed anche: «Indicami,  o Signore, la via da seguire, poiché a Te ho innalzato l'anima mia, e tienimi lontano da ogni avarizia e mondana ambizione».  Ricordava infatti, come penso, ciò che il Signore aveva detto espressamente tramite il profeta Davide: «Se vengono le ricchezze, non vi attaccate il cuore», o anche Salomone che nei detti chiaramente insegna: «Misericordia e fede non devi mai staccare da te, legale al tuo collo e troverai la grazia», e ancora «L'uomo misericordioso fa bene alla sua anima e i bisognosi trovano un sostegno per la loro vita» .
 
      Nel quadro  di questa caratterizzazione di Nicola, come di un giovane attivo nella carità verso il prossimo, la tradizione ci ha fatto pervenire notizia di un episodio concreto di cui fu protagonista.  Il racconto in questione, a differenza della Praxis de stratelatis, non è corroborato da testimonianze esterne, né ci è pervenuto qualche frammento del testo originale che certamente doveva far parte dell'antica Vita del Santo del IV-V secolo.  La sua storicità, almeno nelle sue linee essenziali, è comunque garantita dalla varietà delle antiche tradizioni pervenuteci.  La Praxis de tribus filiabus ci è giunta, infatti, in tre principali versioni, quella bizantina (di Michele Archimandrita, VIII secolo), quella sinaitica (di Anonimo, probabilmente fra il VI e I'VIII secolo) e quella etiopica (nel Sinassario, probabilmente X-XIII secolo).  La narrazione più  estesa e più nota (oltre che più retorica) è la prima.  Tuttavia, qui sembra opportuno seguire proprio questa, anche se tale scelta non implica in alcun modo una preferenza sulla versione sinaitica.  La storicità verte infatti solo sulla sostanza del racconto.  Resta del tutto discutibile ad esempio il numero delle fanciulle in questione, se tre (come vuole Michele), due (come vuole il manoscritto sinaitico), o addirittura quattro (come vuole l'etiopico).
 
      Quel che c’è di comune alle tre tradizioni è il contesto e la modalità dell’azione di Nicola, che certamente a quel tempo era già cristiano, ammesso che non lo sia stato sin dalla nascita. Il contesto è quello di un padre che da una certa agiatezza era caduto in estrema miseria. Avendo alcune figlie in età da marito, venendo esse non considerate e quindi emarginate per la povertà in cui era caduta la famiglia, pensò di risolvere il problema facendole prostituire. Nicola venne a sapere di questo dramma familiare e decise di intervenire secondo la modalità suggerita nel Vangelo.
 Egli rammentava infatti la parola del Signore che, a proposito dell'elemosina, aveva sottolineato l'importanza del non attendersi gratitudine su questa terra e di non cercare la gratifica psicologica nell'essere ammirati. Ecco il relativo brano del Vangelo: «Quando dunque fai l’elemosina, non suonar la tromba avanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle piazze, per essere onorati dagli uomini.  Vi dico in verità che costoro hanno già ricevuto la loro ricompensa.  Quando tu fai l'elemosina invece, non sappia la tua sinistra quel che fa la tua destra, in modo che la tua elemosina resti segreta, e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Matteo, VI, 2-4). Michele Archimandrita racconta:
 
   Senza recarsi da lui e senza fermarsi a soppesare la quantità del dono o le parole di conforto, deciso a liberare quello dalla turpitudine e allo stesso tempo a non suonare la tromba sulla sua elemosina, agendo con cautela, raccolse in un panno una somma sufficiente in monete d'oro, di nascosto la gettò attraverso la finestra nella casa di quell’uomo, e in fretta tornò a casa sua.  Come si fece giorno, l'uomo, levatosi dal letto, trovò in mezzo alla casa il gruzzolo di denaro e, con le lacrime che non poteva trattenere, preso dalla gioia, stupito e sbalordito, rese grazie a Dio.  Intanto cercava di capire da dove gli potesse essere venuto tanto bene.  Accogliendo poi questo dono come se gli fosse stato dato da Dio, il padre delle fanciulle prese l'oro insperatamente trovato e notò che la somma corrispondeva alla quantità di denaro sufficiente per una dote.  Senza frapporre indugi adornò la stanza nuziale della figlia maggiore.  Ebbe così una vita onesta accompagnata da gioia e serenità d'animo, grazie all'intervento di S. Nicola che aveva permesso alla figlia di sposarsi.
     Venuto a conoscenza di ciò, l'uomo di Dio e magnanimo operatore di elemosine Nicola, considerando che la sua beneficenza era sfociata in un'opera bella e salutare, al termine dei festeggiamenti nuziali, che scaldarono l'atmosfera di nuova gioia, nuovamente dalla stessa finestra gettò una simile quantità di denaro, ed in fretta tornò a casa sua.
    Il padre delle fanciulle, svegliandosi ed alzandosi al mattino, nel prendere il nuovo insperato dono di denaro si gettò con la faccia a terra e con gemiti rivolse a Dio azioni di grazie.  Quasi non era in grado di aprire la bocca per l'arrivo di questa nuova beneficenza.  Commosso, si rivolgeva a Dio con parole che si formavano nella sua mente, con voci interiori e suppliche sincere: «Indicami, o Signore, quell'angelo buono che tu tra gli uomini hai designato per noi.  Indicami chi ci ha preparato questo banchetto ricco di saporiti condimenti, e chi è che somministra a noi umili le ricchezze della tua immensa bontà.  Grazie a lui ci hai liberati, al di là di ogni speranza, dalla morte spirituale del peccato e dalla miseria che ci aveva avvolti.  Ecco che per il tuo ineffabile dono farò sposare legittimamente anche la mia seconda figlia, liberandomi da quella turpe disperazione in cui ampiamente ero caduto.  Glorifico il tuo santissimo nome e magnifico la tua bontà senza fine nei confronti nostri che siamo indegni.»
    Avendo condotto al matrimonio come la prima anche la seconda figlia, il padre, che aveva fruito dei doni che Dio gli aveva inviato tramite il suo servo Nicola, trascorse in veglia le notti seguenti, rimanendo sobrio e attento.  Egli sperava che lo sconosciuto avrebbe portato la dote anche alla terza figlia, poiché aveva portato il dono alle altre sorelle senza lasciarsi riconoscere.  Sarebbe stato attento perciò a che quello non venisse mentre egli per negligenza stava dormendo.
    Mentre l'uomo trascorreva assiduamente e con sforzo quelle notti insonni, Nicola, l'adoratore della Trinità e servo di uno della S. Trinità, Cristo, vero Dio nostro, sopraggiunse a notte inoltrata nel solito luogo.  Desiderava infatti che anche la terza figlia, come le altre sorelle potesse sposarsi col medesimo decoro.  Gettando dalla finestra un'eguale somma di denaro, di nascosto e silenziosamente si voltò per andarsene.  Ma il padre delle fanciulle, che aveva atteso il ritorno del nostro Santo, appena fu gettato l'oro, si precipitò fuori e subito lo raggiunse, ed avendolo riconosciuto, gli si gettò ai piedi e prostrato scoppiò in lacrime e singhiozzi.  Poi ringraziandolo calorosamente, con molti argomenti lo chiamava, dopo Dio, salvatore suo e delle tre figlie.  Diceva: «Se non fosse stato per la tua bontà, suscitata dal nostro comune Signore Gesù Cristo, già da tempo le avrei consegnate ad una vita di perdizione e di vergogna”. Udito ciò S. Nicola fece rialzare l’uomo da terra e l’obbligò a giurare di non rivelare a nessuno fino al termine della sua vita che era stato lui a fargli avere quei beni. Quindi lasciò che l’uomo se ne andasse in pace.
 
Il racconto del primo biografo si presenta con tutte le caratteristiche della storicità, ad eccezione di qualche particolare. Mancano i nomi sia del padre che delle fanciulle, tuttavia non si tratta di un miracolo, e l’episodio presenta una notevole verosimiglianza. Infatti, non è superfluo ricordare che l’autore riporta una tradizione mirese e che in questa stessa tradizione l’usanza di offrire la dote alle fanciulle povere non era nuova in Licia. Si ha il caso di Opramoas, che un secolo e mezzo prima di Nicola, aveva compiuto a Rodiapoli, non lontano da Mira, un’azione analoga.
Che il racconto abbia un nucleo storico e non sia il parto della fantasia dello scrittore è dimostrato dal fatto che di esso ci è pervenuta una versione chiaramente indipendente dalla sua. Questa seconda versione che si trova in un codice greco del monte Sinai, è inserita nella vita di Nicola di Sion. Tuttavia non trovandosi negli altri codici della Vita di questo monaco è facile concludere che si tratta di un inserimento indebito (voluto o casuale).  Il narratore sinaitico, lontano dalla tradizione agiografica dell'Asia Minore, ha attinto da una fonte diversa da quella di Michele.  La diversità è tale da rendere impossibile supporre che l'episodio possa essere di origine relativamente recente (VII-VIII secolo).  Se l'episodio infatti fosse sorto in un periodo recente non ci sarebbe stato il tempo sufficiente per alterare a tal punto i dati nell'una o nell'altra versione.  L'alterazione (che sia della fonte da cui ha preso Michele o della fonte del narratore sinaitico) sembra un argomento a favore dell'antichità (V-VI sec.) e quindi della storicità sostanziale del fatto narrato.  Per meglio rendersi conto di questo discorso a favore della storicità del racconto (ed anche perché non è impossibile che la versione sinaitica sia più vicina alla realtà dei fatti) è opportuno riportare anche questa seconda versione:
 
Sulle due  fanciulle. 
    In quella città c'era un uomo che era oppresso da una grande povertà e riusciva a tirare avanti grazie ai prestiti di qualche vicino.  Aveva quest'uomo due figlie.  Colui che porta le anime alla rovina, il diavolo, lo sobillò contro la propria discendenza suggerendogli di darle alla prostituzione.  Egli pianse dal dolore, considerando la cosa vergognosa, tuttavia, pressato dall'estremo bisogno, si decise ad attuare il proposito.  Il giovane Nicola, addormentatosi, una notte vide in sogno un angelo in bianche vesti, il quale spingendo innanzi le due fanciulle e il loro padre, gli rivolse la parola dicendo: «Nicola, la responsabilità della rovina di queste tre anime ricadrà su di te, se tu non darai ad essi l'oro che si trova nella tua casa». Svegliatosi, si ricordò della visione.  Era stato infatti il consiglio di Dio che provvede al bene di tutti.  E così, avendo atteso il momento in cui sapeva che i genitori sarebbero stati fuori casa, di nascosto entrò nella stanza dove era lo scrigno dell'oro e sottrasse una somma.  Quando venne la sera andò e di nascosto, attraverso una finestrina, gettò il danaro sulla tavola ove il povero uomo era solito mangiare.  Alla vista dell'oro, quello disse: «Oggi è giunta per me una grande salvezza.  Il nemico non gioirà della rovina delle mie figlie, poiché non le farò unire peccaminosamente, ma le farò legittimamente sposare».  E fece sposare la figlia maggiore.  La notte seguente Nicola agì nuovamente allo stesso modo, dandogli altre 50 monete.  Avendole prese, quello fece sposare anche la figlia minore, ringraziando Dio e colui che aveva praticato la carità cristiana nei suoi confronti.  Comportandosi così, il grande Nicola salvò delle anime che si erano trovate nelle più grandi ristrettezze.
 
Malgrado la concisione di questa versione sinaitica di «Tre figlie» e al di là di particolari di minore importanza, due differenze balzano agli occhi.  In questa versione le figlie sono due (e non tre) e Nicola non solo ha ancora i genitori ma è a loro che sottrae la somma per la dote delle due figlie.  Questo primo momento è addirittura più vivace che non nella versione di Michele, grazie all'espediente dell'angelo che lo mette di fronte alla responsabilità del peccato del padre e delle figlie.  Meno vivace è invece il finale, ove manca il tentativo di riconoscimento da parte del padre con la susseguente rincorsa.
 
Non deve fare difficoltà l'alternarsi dei termini di danaro, monete e oro, in quanto sembra assodato che si trattava di monete d'oro, in caso contrario difficilmente un gruzzolo di monete d'altro metallo sarebbero potute bastare ad un matrimonio.  Anzi, dato che l'iconografia ha, come simbolo dei tre gruzzoli, tre palle d'oro, non è superfluo ricordare che (almeno a giudicare dal linguaggio di Michele Archimandrita) doveva trattarsi di somme di denaro avvolte in un panno
Che molto di ciò che dice l'agiografo corrisponda alla verità storica è più che possibile.  Non si può negare tuttavia che la descrizione ci presenta un'immagine troppo perfetta e idealizzata.  Tutti i vescovi di quel tempo e di cui ci sono giunte notizie diffuse e dirette, sono uomini di grandi virtù, ma non senza difetti.  S. Atanasio era caparbio ed intransigente, come pure S. Girolamo.  Cirillo d'Alessandria era sospettato di aver suggerito l'eliminazione fisica dei suoi avversari (fra cui l'assassinio, sui gradini di una chiesa, di Ippazia).  S. Gregorio di Nazianzo era continuamente indeciso sul da farsi.  S. Agostino era già adulto quando intraprese la strada della continenza.  Anzi, dove la storia è abbastanza documentata, ha sempre presentato i personaggi nella loro concretezza.  In tal senso, se da un lato ci troviamo di fronte ad un Nicola perfetto, che potrebbe ispirare le nostre azioni, dall'altro si rimane un po' delusi perché le virtù appaiono più vere solo nel contrasto coi difetti o almeno con qualche elemento terreno che ci presenta l'uomo così com'è veramente.
 
C'è un punto, tuttavia, ove Michele Archimandrita sembra rivelare un aspetto nuovo, là dove dice: Ecco dunque, ecco colui che Dio convertiva e rendeva docile a se stesso, questo Egli promuoveva anche alla dignità pastorale, affinché rivestendo di autorità le opere giuste potesse bloccare e castigare coloro che volevano agire iniquamente, e potesse liberare coloro che pativano ingiustizie dagli empi e insidiosi nemici.


 

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4 dicembre 2018 2 04 /12 /dicembre /2018 20:21

 

 

IL CUORE IMMACOLATO DI MARIA, PORTA CHIUSA DEL CIELO

 

http://www.farodiroma.it/quanta-solitudine-per-chi-trova-una-porta-chiusa-lomelia-di-monsignor-zuppi/

 

 

“Quanta solitudine per chi trova una porta chiusa”. L’omelia di monsignor Zuppi

“Quanta solitudine per chi trova una porta chiusa e viene scartato”. Lo ha detto l’arcivescovo di Bologna, monsignor Matteo Maria Zuppi nel corso della celebrazione della Passione del Signore nella Cattedrale di S. Pietro spiegando che “le croci non sono immagini virtuali ma sofferenze vere”. Dati alla mano, l’arcivescovo ha portato tra i banchi della cattedrale i numeri forniti dall’Agenzia dell’ONU OIM. “In Emilia – ha rammentato – il 33% delle famiglie sono mononucleari. E quanta solitudine per chi trova una porta chiusa, viene scartato come gli anziani soli o quanti scappano dall’inferno della fame e della guerra. Sono calati gli arrivi, del 70%, ma sono aumentate percentualmente le morti, del 75%, ha detto. Ecco perché vogliamo restare come Maria e Giovanni sotto la croce. Ecco cosa vuole essere la Chiesa: una famiglia di poveri uomini travolti dalla sofferenza, che non vogliono però rassegnarsi, che non possono e non accettano di indurirsi e scelgono di restare e soffrire con lui”.

L’omelia dell’arcivescovo di Bologna comincia con una citazione di Benedetto XVI: “Il vero amore e la vera amicizia vivono sempre di reciprocità di sguardi, di silenzi intensi, eloquenti, pieni di rispetto e di venerazione, così che l’incontro sia vissuto profondamente, in modo personale e non superficiale”. Solo così, commenta monsignor Zuppi, “impariamo a dire al Signore parole di confidenza. I compianti, così legati alla nostra Chiesa di Bologna, ci aiutano a essere noi i personaggi, drammatici ma tanto umani, che con atteggiamenti diversi si confrontano con il dolore”.

Il Papa, i sogni e Martin Luther King. “Oggi – rammenta Zuppi – è l’ora della delusione, delle domande sul senso, sul futuro, sulla nostra debolezza, sul limite della vita e quindi su chi siamo veramente. Oggi finisce la speranza dei discepoli di Emmaus e di tutti i discepoli, che pensano inutile volere bene, che in fondo aveva ragione chi gridava ‘salva te stesso’, che i sogni finiscono come vollero per invidia i fratelli di Giuseppe, che non sapevano accettare il loro fratello diverso da loro, che sognava. Se i sogni finiscono rimane solo la realtà, il presente, quello che serve a me, oggi. Senza sogni ci arrendiamo alla notte. In realtà solo gli uomini capaci di sognare ‘a occhi aperti e di giorno’ hanno regalato all’uomo il futuro. Gesù vuole vincere la paura, perché questa non può nulla contro la fede. Sotto la croce sentiamo quanto è inaccettabile la violenza che ancora oggi costruisce tante croci. Ce n’è tanta intorno a noi ed anche dentro di noi, semi di divisione, nascosta nelle mani e nelle parole, nell’aggressività virtuale e reale, nel contrapporsi invece di cercare quello che unisce. I semi di divisione sono anche essi, sempre, fertili. C’è tanta discriminazione, si ripresentano vecchi e nuovi razzismi che umiliano l’uomo, tanto che non ci riconosciamo più fratelli tra di noi. Tra pochi giorni saranno 50 anni dall’uccisione del Pastore Martin Luther King, che sognava che i suoi quattro figli avrebbero vissuto un giorno senza essere giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Papa Francesco parla di una terza guerra mondiale a pezzi. King, come tanti che avevano visto la seconda guerra che mandava a pezzi la terra e distruggeva tutto e tutti, diceva: ‘Non possiamo sopravvivere a lungo separati spiritualmente in un mondo che é unito dal punto di vista geografico’. ‘In un tempo in cui i veicoli si slanciano attraverso lo spazio esterno e missili balistici telecomandati aprono strade di morte attraverso la stratosfera, nessuna nazione può attribuirsi la vittoria nella guerra. Una guerra così detta limitata lascerebbe poco più che una funesta eredità  di umanità sofferente. Una guerra mondiale lascerebbe solo ceneri ardenti come muta testimonianza di una razza umana la cui follia ha portato inesorabilmente alla morte prematura’.

Quante croci alzate oggi dalle guerre. “Quante morti per ordigni sempre più potenti mentre é sempre più debole la volontà di dialogo e di pace. Rischiamo di abituarci, di passarci davanti alla croce senza provare compassione, senza nemmeno guardare, proprio come la folla di Gerusalemme. Sembra che si debba riempire gli arsenali, non di svuotarli! Se non sogniamo di trasformare le lance in falci se ne costruiranno sempre tante e più micidiali. Quanta solitudine accompagna la sofferenza! Quanti uomini sono soli. L’amore è fedele. Vedere l’amore appeso sulla croce ci aiuta a piangere”. E’ questo, secondo Zuppi, il primo modo per non dire “salva te stesso”, “grido che si ritorce contro di noi perché tutti abbiamo in realtà bisogno di essere salvati e quando lasciamo soli invece di aiutare condanniamo loro e noi alla fine. Guardando la croce capiamo il nostro peccato, ne vediamo le conseguenze, ma anche inizia la nostra umanità, perché ritroviamo noi stessi e la decisione di cambiare”.

Gesù ci chiede di non avere un sentimento vago di filantropia, ma di amare e difendere l’uomo e di combattere il suo nemico, di svelare le cause, di rivelare le complicità, di cambiare iniziando dal nostro cuore. “La croce ci svela l’inganno delle felicità senza sacrificio, di un benessere inesistente, di Prometeo che crede essere più forte del male. Dio con il suo amore fino alla fine ci fa diventare uomini, perché ci aiuta ad affrontare il problema della vita, che è il male e la morte, ci libera da quel paradosso di crederci senza fine, di affidarci ad un benessere senza lottare contro il male, finendo nell’ossessiva ricerca di una felicità drogata”.

 

Alessandro Notarnicola   Gianni Morandi -

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4 dicembre 2018 2 04 /12 /dicembre /2018 17:38

 

 

LA PECORA NERA:  GUARIGIONE PER LA FAMIGLIA

 

 

 

 

http://www.uomoplanetario.org/2018/08/sei-una-pecora-nera-in-realta-sei-un-tesoro-per-il-tuo-albero-genealogico/

 

 

 

Sei una pecora nera? In realtà sei un tesoro per il tuo albero genealogico 

 

di  Sandra Saporito

 

Avrai sicuramente letto su Facebook la citazione di Bert Hellinger, il noto psicologo e studioso delle costellazioni familiari, sulle pecore nere che sta girando molto in questi giorni e che afferma:

 

 

Coloro che sono chiamate “Pecore Nere” della famiglia sono in realtà cercatori di cammini di liberazione per l’albero genealogico.

 

Quei membri dell’albero che non si adattano alle norme o alle tradizioni del Sistema Familiare, coloro che fin da piccoli cercano costantemente di rivoluzionare le credenze, andando contromano ai cammini segnati dalle tradizioni familiari, quelli criticati, giudicati e anche rifiutati, loro, generalmente sono chiamati a liberare l’albero dalle storie che si ripetono e frustrano generazioni intere…

 

 

Rendersi conto che essere una pecora nera non è un difetto ma una grande opportunità è come una boccata d’aria fresca per tutte quelle persone che si sono sentite finora sbagliate: ha permesso a molti di rendersi conto del loro vero ruolo in seno alla famiglia e di accettare le loro diversità.

 

Perché la pecora nera è il tentativo dell’albero genealogico di guarire le sue ferite e di salvarsi dall’auto-distruzione.

 

Ora vediamo perché e qual è il dono di questo membro così prezioso per il futuro della sua famiglia…

 

Caratteristiche della pecora nera

 

In realtà sono numerosi a parlare del prezioso ruolo della pecora nera: Bert Hellinger, Alejandro Jodorowsky,…

Anche se hanno un approccio diverso rispetto alle discipline psico-genealogiche, per loro il ruolo della pecora nera non cambia: rimane la salvatrice, la liberatrice di un albero afflitto da una cancrena nevrotica.

 

A furia di ripetere i medesimi schemi, le nevrosi si cristallizzano bloccando la linfa o il flusso vitale dell’albero che sparge veleno, sofferenza, malattia attraverso i suoi membri; ecco che la pecora nera, quel membro “diverso” ‒ l’artista nella famiglia di matematici, l’ateo in mezzo ai credenti,…‒ arriva per insufflare vita nuova: è lei l’antidoto che permetterà di guarire da questa cancrena.

 

Spesso le pecore nere sono i membri che vanno fuori dai sentieri battuti:

 

→ Sono i primi a lanciarsi in ambiti del tutto sconosciuti alla famiglia ‒il primo all’università, il primo ad andare all’estero, il primo ad impegnarsi in alcune battaglie o a vivere alcune esperienze.


→ Hanno valori diversi, credenze diverse, rispetto agli altri membri della famiglia ‒ diverso impegno politico, ambientale, etico, ecc.


→ Hanno un modo di vedere il mondo e di dare un senso alla loro vita diametralmente opposto al resto della famiglia ‒il vegetariano, l’ateo, l’artista, il filosofo,ecc.


→ Sono spesso criticati per le loro scelte, il loro comportamento, il loro stile di vita‒come l’hippy in mezzo alla famiglia borghese, per esempio.


→ Sono tenuti in disparte, emarginati, esclusi.


→ Nessuno riesce a capire il loro punto di vista considerato troppo “originale”.

 

Mentre i membri della famiglia considerano questa diversità come un’anomalia, quasi fosse un difetto di fabbricazione, l’albero genealogico dal canto suo prova a creare un antidoto al grave squilibrio che vive e che rischia di portarlo verso la via senza ritorno: l’estinzione della famiglia.

 

Le dinamiche dell’albero: evoluzione Vs distruzione

 

L’affermazione di Hellinger prosegue:

 

Le “Pecore Nere”, quelle che non si adattano, quelle che gridano ribellione, loro riparano, disintossicano e creano un nuovo e fiorente ramo nell’albero genealogico. Grazie a questi membri, i nostri alberi rinnovano le loro radici. La loro ribellione è terra fertile, la loro pazzia è acqua che nutre, la loro passione è fuoco che riaccende il cuore degli antenati. Irraccontabili e innumerevoli sogni repressi, sogni non realizzati, talenti frustrati dei nostri antenati, si manifestano nella ribellione di tali pecore nere che cercano di realizzarli e realizzare se stesse.

 


L’albero genealogico avrà la tendenza a mantenere il corso castrante e tossico del suo tronco, il quale rende difficile e conflittuale la vita di tali pecore.”

 

Per fruttificare, offrire al mondo dei frutti sani e in grado di prosperare, l’albero deve essere sano; purtroppo questo non accadde praticamente mai: blocchi, segreti, sofferenze, nevrosi ostacolano il naturale sviluppo dei membri della famiglia, col rischio di tramandare l’insofferenza ed aprire le porte all’infelicità.

 

Il pericolo maggiore è accettare questo stato di sofferenza come caratteristica peculiare della famiglia e rassegnarsi.

 

 

Il membro escluso, la pecora nera, è colui che non si arrende, anzi! Di fronte ad una pericolosa stasi, sintomo di una cristallizzazione nevrotica, fa saltare tutto in aria in un disperato tentativo di smuovere le acque e di stimolare l’albero a reagire, a guarire.

 

Portando idee, valori, concetti nuovi nella famiglia, agendo in modo diverso, in realtà non fa altro che portare nuova linfa vitale e spronare gli altri membri a muoversi dagli antichi schemi ormai obsoleti; scuote le radici per aiutare l’albero a scrollarsi di dosso i blocchi che gli impediscono di manifestare la sua grandezza. Se non ci riuscirà, l’albero si indebolirà fino a morire.

 

Il dono della pecora nera: la guarigione dell’albero

 

Il membro che copre il ruolo di pecora nera ‒ed è bene precisare che si tratta di un ruolo e non di un’identità, perché pecora nera si è solo fino a quando l’albero necessita di un “antidoto”‒ si ritrova confrontato ad alcuni problemi.

 

Cosa diceva Carl G. Jung in proposito:

 

Mentre lavoravo al mio albero genealogico, ho capito la strana comunanza di destino che mi lega ai miei antenati. Ho fortemente il sentimento di essere sotto l’influenza di cose o problemi che furono lasciati incompleti o senza risposta dai miei genitori, dai miei nonni, dai miei bisnonni e dai miei antenati. Mi sembra spesso che ci sia in una famiglia un karma impersonale che si trasmette dai genitori ai figli. Ho sempre pensato che anch’io dovevo rispondere a delle domande che il destino aveva già posto ai miei avi, domande alle quali non si era ancora trovata una risposta, o anche che dovevo risolvere o semplicemente approfondire dei problemi che le epoche anteriori lasciarono in sospeso. La psicoterapia non ha ancora tenuto abbastanza in conto queste circostanze”
— C.G. Jung, Ma vie, Gallimard, Paris, 1973 —

 

Ecco che allora la diversità della pecora nera si manifesta in tutto il suo splendore: è l’elemento equilibratore ‒il vegetariano porta una maggiore conoscenza delle problematiche etiche riguardante altri esseri viventi, l’ateo permette di arginare il fanatismo religioso, l’artista equilibra e vitalizza un materialismo troppo pesante, ecc. ‒; è un elemento che permetterà ai membri che sapranno riconoscere il suo valore di andare oltre i blocchi tramandati in famiglia; la diversità diventerà ricchezza, porterà guarigione riportando l’asse dell’albero nel mezzo, lontano dagli estremismi e dagli assolutismi.

 

L’integrazione, e non l’esclusione, è la chiave di guarigione: è ciò che permette all’albero di fruttificare, prosperare, evolvere.

 

Quindi se sei una pecora nera, ascolta il consiglio di Bert Hellinger:

 

“Cura la tua “unicità” come il fiore più prezioso dell’albero. Sei il sogno realizzato di tutti i tuoi antenati.”  Mina - Con Te Sarà Diverso - YouTube

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4 dicembre 2018 2 04 /12 /dicembre /2018 15:05

 

 

CERCO IL TUO VOLTO SIGNORE

 

 

https://bambini.uicca.it/il-volto-di-gesu/

 

 

Il volto di Gesù

 

In Sicilia, il monaco Epifanio un giorno scoprì in sé un dono del Signore: sapeva dipingere bellissime icone.

 

 

Voleva dipingerne una che fosse il suo capolavoro: voleva ritrarre il volto di Cristo.

 

Ma dove trovare un modello adatto che esprimesse insieme sofferenza e gioia, morte e risurrezione, divinità e umanità?

 

 

Epifanio non si dette più pace e si mise in viaggio. Percorse l’Europa scrutando ogni volto, ma nulla.

 

Il volto adatto per rappresentare Cristo non c’era.

 

Una sera si addormentò ripetendo le parole del Salmo: “Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto”.

 

Fece un sogno. Un angelo lo riportava dalle persone incontrate e gli indicava un particolare che rendeva il loro volto simile a quello di Cristo: la gioia di una giovane sposa, l’innocenza di un bambino, la forza di un contadino, la sofferenza di un malato, la paura di un condannato, la bontà di una madre, lo sgomento di un orfano, la severità di un giudice, l’allegria di un giullare, il volto bendato di un lebbroso.

 

 

Epifanio tornò al suo convento e si mise al lavoro.

 

 

Dopo un anno, l’icona di Cristo era pronta e la presentò all’abate e ai confratelli che rimasero attoniti.

 

Il volto di Cristo era meraviglioso, commovente, scrutava nell’intimo e interrogava.

 

Invano chiesero a Epifanio chi gli era servito da modello.

 

Non cercare il Cristo nel volto di un solo uomo, ma cerca in ogni uomo un frammento del volto di Cristo.

 

 

Bruno Ferrero  CERCO IL VOLTO

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4 dicembre 2018 2 04 /12 /dicembre /2018 07:15

 

 

 

NATALE:  GESU' PRIGIONIERO DEL MONDO

 

 

Mi sto preparando a trascorrere un Natale da non

perdonato da quanti sarebbero stati da me in

qualche modo offesi.

 

Mi sento un carcerato che appena tenta di

evadere dalla prigionia,  nella quale mi tiene

incatenato il mondo, questo stesso mondo

mi crolla addosso, e fa l'offeso.

 

Ora il mondo si sta preparando a fare il presepe

per il Natale che si avvicina.

 

Se a Betlemme c'è ancora una prigione,

io sto là dentro e attendo  la mia liberazione.

 

 

Riccardo Fontana

 

 

 

 

 

Tratto da: qumran2.net

 

Il segnale

 

Un giovane era seduto da solo nell'autobus; teneva lo sguardo fisso fuori del finestrino. Aveva poco più di vent'anni ed era di bell'aspetto, con un viso dai lineamenti delicati.

Una donna si sedette accanto a lui. Dopo avere scambiato qualche chiacchiera a proposito del tempo, caldo e primaverile, il giovane disse, inaspettatamente: «Sono stato in prigione per due anni. Sono uscito questa mattina e sto tornando a casa».

Le parole gli uscivano come un fiume in piena mentre le raccontava di come fosse cresciuto in una famiglia povera ma onesta e di come la sua attività criminale avesse procurato ai suoi cari vergogna e dolore. In quei due anni non aveva più avuto notizie di loro. Sapeva che i genitori erano troppo poveri per affrontare il viaggio fino al carcere dov'era detenuto e che si sentivano troppo ignoranti per scrivergli. Da parte sua, aveva smesso di spedire lettere perché non riceveva risposta.

Tre settimane prima di essere rimesso in libertà, aveva fatto un ultimo, disperato tentativo di mettersi in contatto con il padre e la madre. Aveva chiesto scusa per averli delusi, implorandone il perdono.

Dopo essere stato rilasciato, era salito su quell'autobus che lo avrebbe riportato nella sua città e che passava proprio davanti al giardino della casa dove era cresciuto e dove i suoi genitori continuavano ad abitare.

Nella sua lettera aveva scritto che avrebbe compreso le loro ragioni. Per rendere le cose più semplici, aveva chiesto loro di dargli un segnale che potesse essere visto dall'autobus. Se lo avevano perdonato e lo volevano accogliere di nuovo in casa, avrebbero legato un nastro bianco al vecchio melo in giardino. Se il segnale non ci fosse stato, lui sarebbe rimasto sull'autobus e avrebbe lasciato la città, uscendo per sempre dalla loro vita.

Mentre l'automezzo si avvicinava alla sua via, il giovane diventava sempre più nervoso, al punto di aver paura a guardare fuori del finestrino, perché era sicuro che non ci sarebbe stato nessun fiocco.

Dopo aver ascoltato la sua storia, la donna si limitò a chiedergli: «Cambia posto con me. Guarderò io fuori del finestrino».

L'autobus procedette ancora per qualche isolato e a un certo punto la donna vide l'albero. Toccò con gentilezza la spalla del giovane e, trattenendo le lacrime, mormorò: «Guarda! Guarda! Hanno coperto tutto l'albero di nastri bianchi».

Siamo più simili a bestie quando uccidiamo.
Siamo più simili a uomini quando giudichiamo.
Siamo più simili a Dio quando perdoniamo.

 

Bruno Ferrero  Lucio Battisti -

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3 dicembre 2018 1 03 /12 /dicembre /2018 14:19

 

 

 

LA CANDELA DELLA PROFEZIA

 

 

avvento.jpg

 

 

Carissimi lettori, carissime lettrici,

oggi ho imparato qualcosa di nuovo.

 

Lo sapevate che le candele della corona

d'avvento hanno un nome?

 

La prima è la candela della Profezia;

la seconda è la candela di Betlemme;

la terza  è la candela dei Pastori;

la quarta è la candela degli Angeli.

 

Buona lettura!

 

Riccardo Fontana

 

 

 

 

 

Tratto da: qumran2.net

 

Le due candele

 

In una piccola chiesetta di montagna, vi era ai piedi di una splendida croce un cesto pieno di candele, pronte per essere accese e così illuminare il volto di Gesù.


Quella mattina, una delle candele iniziò a dire alla sua vicina: «Non vedo l'ora che qualcuno mi prenda e mi accenda per illuminare il volto del mio Signore».

 

L'altra invece preoccupata rispose: «No, io non voglio morire così presto... voglio vivere ancora...».

 

Entra in chiesa una bambina con la sua nonna e prende proprio la candela che non vedeva l'ora di essere accesa, l'altra invece non appena vedeva avvicinarsi qualcuno, scivolava in fondo al cesto per non farsi prendere.

A fine giornata la prima candela si era ormai consumata, ma per molte ore aveva fatto luce al volto di Gesù.


Il sacrestano ritirò il cesto con le candele avanzate in sacrestia, ma distrattamente le lasciò sul termosifone.

Il mattino le ritrovò tutte sciolte e ormai inutilizzabili.

 

Vi sono persone che hanno speso la loro vita per illuminare le tenebre del mondo, altre invece che non hanno mai fatto luce e si sono sciolte nelle proprie paure e insicurezze.


Tu che candela vuoi essere?

 

don Luca Mordaca  Ed Sheeran, Candle in the wind (testo e traduzione ita) - YouTube

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3 dicembre 2018 1 03 /12 /dicembre /2018 09:52

 

 

NATALE: IL MUSCHIO VALE PIU' DI UNA PREDICA

 

 

Tratto da: nondisolopane.it

 

 

 

La Predica di San Francesco

 

 

Un giorno, uscendo dal convento, San

Francesco incontrò frate Ginepro.

 

Era un frate semplice e buono e San

Francesco gli voleva molto bene.

 

Incontrandolo gli disse: «Frate Ginepro,

vieni, andiamo a predicare».

 

«Padre mio», rispose, «sai che ho poca

istruzione. Come potrei parlare alla

gente?».

 

Ma poiché San Francesco insisteva,

frate Ginepro acconsentì.

 

Girarono per tutta la città, pregando in

silenzio per tutti coloro che lavoravano

nelle botteghe e negli orti.

 

Sorrisero ai bambini, specialmente a

quelli più poveri.

 

Scambiarono qualche parola con i più

anziani.

 

Accarezzarono i malati.

 

Aiutarono una donna a portare un

pesante recipiente pieno d’acqua.

 

Dopo aver attraversato più volte tutta la

città, San Francesco disse: «Frate

Ginepro, è ora di tornare al convento».

 

«E la nostra predica?».

 

«L’abbiamo fatta…l’abbiamo fatta»

rispose sorridendo il santo.

 

Se hai in tasca il profumo del muschio

non hai bisogno di raccontarlo a tutti.

 

Il profumo parlerà in tua vece. La

predica migliore sei tu.  PROFUMO DI

 

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3 dicembre 2018 1 03 /12 /dicembre /2018 06:46

 

 

GESU' CRISTO: LA PORTA CHE SI APRE SOLO DALL'INTERNO

 

Tratto da: qumran2.net

 

La Porta

 

C'è un quadro famoso che rappresenta Gesù in un giardino buio. Con la mano sinistra alza una lam­pada che illumina la scena, con la destra bussa ad una porta pesante e robusta.

Quando il quadro fu presentato per la prima vol­ta ad una mostra, un visitatore fece notare al pittore un particolare curioso.

«Nel suo quadro c'è un errore. La porta è senza maniglia».

«Non è un errore» rispose il pittore. «Quella è la porta del cuore umano. Si apre solo dall'interno».

L'aeroporto di una città dell'Estremo Oriente ven­ne investito da un furioso temporale. I passeggeri attraversarono di corsa la pista per salire su un DC3 pronto al decollo per un volo interno.

Un missionario, bagnato fradicio, riuscì a trova­re un posto comodo accanto a un finestrino. Una gra­ziosa hostess aiutava gli altri passeggeri a sistemarsi.

Il decollo era prossimo e un uomo dell'equipag­gio chiuse il pesante portello dell'aereo.

Improvvisamente si vide un uomo che correva ver­so l'aereo, riparandosi come poteva, con un imper­meabile. Il ritardatario bussò energicamente alla porta dell'aereo, chiedendo di entrare. L'hostess gli spie­gò a segni che era troppo tardi. L'uomo raddoppiò i colpi contro lo sportello dell'aereo. L'hostess cer­cò di convincerlo a desistere. «Non si può... E' tar­di... Dobbiamo partire», cercava di farsi capire a se­gni dall'oblò.

Niente da fare: l'uomo insisteva e chiedeva di en­trare. Alla fine, l'hostess cedette e aprì lo sportello. Tese la mano e aiutò il passeggero ritardatario a issarsi nell'interno.

E rimase a bocca aperta. Quell'uomo era il pilo­ta dell'aereo.

Attento! Non lasciare a terra il pilota della tua vita.

 

Bruno Ferrero    Mina - Le mani sui

 

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2 dicembre 2018 7 02 /12 /dicembre /2018 20:42

 

 

GESU' CRISTO: L'ABETE SEMPREVERDE

 

 

Tratto da: amicidilazzaro.it

 

L’Albero che torno’ a casa

Ma una gelida mattina di dicembre, mentre i fiocchi di neve sfarfallavano pigri, l’abete avvertì uno strumento acuminato che gli tagliava e strappava le radici.

Poco dopo due mani d’uomo, rudi e sgarbate, lo estirparono dalla terra e lo caricarono nel baule puzzolente di un’automobile che ripartì subito verso la città. Il viaggio fu terribile per il povero abete, che pianse tutte le sue lacrime di profumata resina.
Dopo mille dolorosi sballottamenti, si ritrovò finalmente alla luce. Lo misero in un grosso vaso, in bella mostra. La terra del vaso era fresca e l’abete ebbe un po’ di sollievo e ricominciò a sperare. Divenne perfino euforico, quando mani di donna e piccole mani di bambini cominciarono a infilare tra i suoi rami fili dorati, luci colorate e lustrini scintillanti.
“Mi credono il re degli alberi”, pensava. “Sono stato veramente fortunato.  Altro che starmene là al freddo e alla neve…”.
Per un po’ di giorni tutto andò bene. L’abete faceva un figurone, nel suo abbigliamento luccicante. Era contento anche del presepio che avevano collocato ai suoi piedi: guardava con commozione Maria e Giuseppe, il Bambino nella mangiatoia e anche l’asino e il bue.
Di sera, quando tutte le piccole luci colorate erano accese, gli abitanti della casa lo guardavano e facevano: “Ooooh, che bello!”.
Poi gli venne sete. Sul principio era sopportabile. “Qualcuno si ricorderà di sicuro di darmi un po’ d’acqua”, pensava l’abete. Ma nessuno si ricordava e la sofferenza dell’abete divenne terribile. I suoi aghi, i suoi bellissimi aghi verde scuro, cominciarono a ingiallire e cadere. Si rese conto che aveva lentamente cominciato a morire.
Una sera, ai suoi piedi vennero ammucchiati molti pacchetti confezionati con carta luccicante e nastri colorati.

C’era molta eccitazione nell’aria. Il mattino dopo scoppiò il finimondo: bambini e adulti aprivano i pacchetti, gridavano, si abbracciavano. L’abete riuscì appena a pensare: “Tutti qui parlano d’amore, ma fanno morire me…”. Improvvisamente una piccola mano lo sfiorò. La sorpresa dell’abete fu infinita: davanti a lui c’era il Bambino del presepio.
“Piccolo abete”, disse il Bambino Gesù, “vuoi tornare a vivere nel tuo bosco, in mezzo ai tuoi fratelli?”.  “Oh sì, per piacere!”.
“Ora, che hanno avuto i regali, non gliene importa più niente di te… E nemmeno di me”. Il Bambino Gesù prese l’abete, che d’incanto ridivenne verde e vigoroso. Poi insieme volarono via dalla finestra.


Tratto da “Le storie del Buon Natale” di Bruno Ferrero   Mina - Né come, né perché (HD) - YouTube

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2 dicembre 2018 7 02 /12 /dicembre /2018 17:39

 

 

AVVENTO:  TEMPO DI PENTIMENTO

 

Tratto da: qumran2.net

 

Il barilotto

 

Tempo fa, in una terra lontana, viveva un signore potente e famoso in ogni angolo del regno.

Sull'orlo di una nera scogliera aveva fatto costruire una roccaforte così solida e ben armata, da non temere né re, né conti, né duchi, né principi, né visconti.

E questo possente signore aveva un bell'aspetto, nobile e imponente.

Ma nel suo cuore era sleale, astuto e ipocrita, superbo e crudele.
Non aveva paura né di Dio né degli uomini.

Sorvegliava come un falco i sentieri e le strade che passavano nella regione e piombava sui pellegrini e mercanti per rapinarli.

Aveva da tempo calpestato tutte le promesse e le regole della cavalleria.
La sua crudeltà era divenuta proverbiale.
Disprezzava apertamente la gente e le leggi della Chiesa.

Ogni Venerdì santo invece di digiunare e rinunciare a mangiare carne organizzava grandi festini e lauti banchetti per i suoi cavalieri.
Si divertiva a tiranneggiare vassalli e servitù.

Ma un giorno, durante un combattimento, un colpo di balestra lo ferì gravemente ad un fianco.

Per la prima volta, il crudele signore provò la sofferenza e la paura.

Mentre giaceva ferito, i suoi cavalieri gli fecero balenare davanti agli occhi la gola spalancata e infuocata dell'inferno a cui era sicuramente destinato se non si fosse pentito dei suoi peccati e confessato in chiesa. 
"Pentirmi io? Mai! Non confesserò neppure un peccato!".

Tuttavia il pensiero dell'inferno gli provocò un po' di spavento salutare.

A malincuore gettò elmo, spada e armatura e si diresse a piedi verso la caverna di un santo eremita.

Con tono sprezzante, senza neppure inginocchiarsi, raccontò al santo frate tutti i suoi peccati: uno dietro l'altro, senza dimenticarne neppure uno.
Il povero eremita si mostrò ancora più afflitto:

"Sire, certamente hai detto tutto, ma non sei pentito. Dovresti almeno fare un po' di penitenza, per dimostrare che vuoi davvero cambiare vita".

"Farò qualunque penitenza. Non ho paura di niente, io! Purché sia finita questa storia".
"Digiunerai ogni Venerdì per sette anni...!".
"Ah, no! Questo puoi scordartelo!".
"Vai in pellegrinaggio fino a Roma...".
"Neanche per sogno!".
"Vestiti di sacco per un mese...".
"Mai!".

Il superbo cavaliere respinse tutte le proposte del buon frate, che alla fine propose: "Bene, figliolo. Fa' soltanto una cosa: vammi a riempire d'acqua questo barilotto e poi riportamelo".

"Scherzi? E' una penitenza da bambini o da donnette!". Sbraitò il cavaliere agitando il pugno minaccioso.
Ma la visione del diavolo sghignazzante lo ammorbidì subito.

Prese il barilotto sotto braccio e brontolando si diresse al fiume.

Immerse il barilotto nell'acqua, ma quello rifiutò di riempirsi.

"E' un sortilegio magico", ruggì il penitente, "ma ora vedremo".

Si diresse verso una sorgente: il barilotto rimase ostinatamente vuoto.
Furibondo, si precipitò al pozzo del villaggio.
Fatica sprecata!

Provò ad esplorare l'interno del barilotto con un bastone: era assolutamente vuoto.

"Cercherò tutte le acque del mondo", sbraitò il cavaliere. "Ma riporterò questo barilotto pieno!".

Si mise in viaggio, così com'era, pieno di rabbia e di rancore.
Prese ad errare sotto la pioggia e in mezzo alle bufere.

Ad ogni sorgente, pozza d'acqua, lago o fiume immergeva il suo barilotto e provava e riprovava, ma non riusciva a fare entrare una sola goccia d'acqua.

Anni dopo, il vecchio eremita vide arrivare un povero straccione dai piedi sanguinanti e con un barilotto vuoto sotto il braccio.
Le lacrime scorrevano sul suo volto scavato.

Una lacrima piccola piccola scivolando sulla folta barba finì nel barilotto.
Di colpo il barilotto si riempì fino all'orlo dell'acqua più pura, più fresca e buona che mai si fosse vista.

Una sola piccola lacrima di pentimento...

L'esperienza nascosta nel racconto:
Il cavaliere del racconto scopre, con fatica e sofferenza personale, la radice del vero pentimento essenziale per ottenere il perdono di Dio e la pace vera dell'anima.
   Little Tony....Stasera Mi Pento - YouTube

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Présentation

  • : RIABILITAZIONE POST MORTEM DI PADRE GINO BURRESI
  • : Riabilitazione post mortem di Padre Gino Burresi Firma la Petizione https://petizionepubblica.it/pview.aspx?pi=IT85976 "Sono dentro, donna o uomo che vive li nel seno di questa chiesa. Da me amata, desiderata e capita... Sono dentro. Mi manca aria, Aspetto l'alba, Vedo tramonto. La chiesa dei cardinali madri per gioielli, matrigne per l'amore. Ho inciampato e la chiesa non mi sta raccogliendo. Solitudine a me dona, a lei che avevo chiesto Maternità. E l'anima mia, Povera, Riconosce lo sbaglio di aver scelto il dentro e, Vorrei uscire ma dentro dovrò stare, per la madre che non accetta, Il bene del vero che ho scoperto per l'anima mia. Chiesa, Antica e poco nuova, Barca in alto mare, Getta le reti Su chi ti chiede maternità. Madre o matrigna, per me oggi barca in alto mare che teme solo di Affondare! Matrigna." Commento n°1 inviato da Giò il 2/04/2011 alle 14h27sul post: http://nelsegnodizarri.over-blog.org/article-la-chiesa-di-oggi-ci-e-madre-o-matrigna-67251291
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