UN SICOMORO NEL PRESEPE DI PADRE GINO BURRESI
Padre Gino Burresi, in trasferta a Gerico, alla sabbia preferisce un bell'albero di sicomoro nel suo presepe di Montignoso.
Riccardo Fontana
(Tratto da: diocesidibenevento.it)
Il coraggio di scendere dal sicomoro. Intervento dell’Arcivescovo per l’inaugurazione dell’anno pastorale
L’evangelista Luca (19,1-10) narra che Gesù entrò un giorno nella città di Gerico e venne subito circondato da una vasta folla che gli faceva ala mentre ne percorreva le strade. Tra questa vi era anche un uomo di nome Zaccheo, un ricco capo dei pubblicani, il quale, a causa della sua piccola statura, non riusciva però a vedere Gesù: deciso a superare i limiti che gli erano stati imposti dalla natura, egli corse dunque avanti lungo il cammino che Gesù avrebbe dovuto compiere e, per poterlo finalmente scorgere, salì su un sicomoro. Fu così con sua grande sorpresa che quando Gesù giunse nei pressi dell’albero lo vide alzare lo sguardo e dirgli: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». L’uomo allora scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano dicendo: «È entrato in casa di un peccatore!». Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».
La grazia di un incontro
L’episodio, uno dei più intensi e commoventi di tutto il vangelo di Luca, ci mostra un Gesù che non fugge la vita degli uomini, ma attraversa la città; ci è facile, perciò, immaginarlo tra i banchi dei venditori, tra la polvere delle vie e delle piazze pubbliche, mentre cerca di avanzare a fatica tra la folla che gli fa ressa intorno (cf. anche Mc 5,24.31). Nella calca c’è anche Zaccheo, «capo dei pubblicani e ricco». I pubblicani, qualcosa di molto simile a strozzini legalizzati, erano tipi poco graditi: oltre a succhiare il sangue della povera gente essi favorivano anche l’odiato dominio straniero. Zaccheo, dunque, era un uomo temuto perché i soldi lo rendevano potente, ma non certo amato: probabilmente, egli poteva cogliere negli sguardi degli altri il disprezzo che nutrivano nei suoi confronti.
Incuriosito dalla gran confusione che animava le vie di Gerico, Zaccheo volle scoprirne la ragione e quando capì che il motivo di tanta agitazione era Gesù, gli fu facile intuire che quell’uomo, a differenza sua, era molto amato. Curiosità, invidia e, forse, inconscia ammirazione si agitarono dentro di lui, facendo emergere il desiderio di volerlo vedere di persona. Tuttavia, nel momento stesso in cui si decise a seguire un tale impulso, tornarono a galla i suoi limiti più frustranti: neppure i tanti soldi che aveva accumulato gli avevano infatti permesso di superare i suoi problemi “di statura”. Ricco e potente, con tutta probabilità egli era un uomo infelice e forse complessato sin dall’infanzia. Chissà quante volte, da bambino, sarà stato preso in giro dai compagni, vilipeso, perché i piccoli sono costretti – quasi sempre – a sottostare ai voleri dei più grandi! Se si era tanto affannato ad ammucchiare soldi non sarà stato forse perché sperava di potersi prendere così la propria rivincita? Di ottenere, attraverso il denaro, quell’affetto che non era riuscito ad avere in altro modo, o perlomeno il rispetto, o anche solo la paura degli altri?
Corse dunque ai ripari: intuendo il tragitto che Gesù avrebbe dovuto fare, si avvantaggiò nel percorso e salì su un sicomoro. Quando Gesù, passando, giunse nei pressi di quell’albero, «alzò lo sguardo». È facile immaginare l’intensità di quel momento: Gesù si fermò e altrettanto fecero coloro che lo seguivano; guardò verso Zaccheo, quindi tutti fecero lo stesso; Zaccheo avvertì tutti quegli sguardi concentrati su di lui, ma comprese anche – e bene! – i diversi sentimenti che da essi promanavano: gli sguardi della folla, tesi e arrabbiati; lo sguardo di Gesù, invece, del tutto differente. Forse per la prima volta dopo tanti anni, Zaccheo non si sentì temuto né odiato, ma accolto e amato come persona, semplicemente per quello che era.
Quel forestiero è un uomo che comanda. È lui, infatti, a impartire un ordine imperioso: «Scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Zaccheo, fino ad allora abituato a comandare, non era stato però appagato da quel potere; possiamo anzi supporre che più passavano gli anni più egli avvertiva l’amarezza della solitudine; ora è un altro a dargli ordini e ne sembra felice. «Lo accolse – dice l’evangelista – pieno di gioia». Il Signore cambierà radicalmente la vita di Zaccheo, ma egli non avrà paura di perdere quella che era la sua precedente sicurezza (il denaro), perché ha finalmente scoperto qualcosa di più prezioso.
Eppure, le conseguenze di una simile scelta non furono affatto indolori: «vedendo ciò, tutti mormoravano». Non era la prima volta che Gesù finiva per scontrarsi con l’opposizione dei benpensanti: dovette addirittura affrontare l’incomprensione dei suoi stessi discepoli quando si fermò a parlare con la samaritana (Gv 4,27); tuttavia, a Gesù poco importava di ciò, soprattutto quando ad essere in ballo era la salvezza di una persona, al punto che non si fece scrupolo di chiamare Matteo alla sua sequela mentre questi era ancora seduto al banco delle imposte (Mt 9,9). Zaccheo, però, «alzatosi» (il verbo è lo stesso che si usa per la risurrezione; questa è, per lui, è una vera e propria rinascita), disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». La sua è una conversione che dà subito frutti (Mt 3,8), e ciò che sembrava perduto è salvato dal Figlio dell’Uomo, messosi sulle tracce dei peccatori per rialzarli (tutto il cap. 15 del Vangelo di Luca è centrato su questa misericordia divina).
La lezione di quell’incontro
È alla luce di questa pagina evangelica che vorrei ora rileggere la nostra storia e trovare il senso di questa giornata. Come Chiesa beneventana possiamo vantare un glorioso passato: la Janua maior, lo stupendo capolavoro che permette l’accesso alla nostra cattedrale, ne è la testimonianza emblematica; la porta bronzea, infatti, dopo le storie della vita di Cristo e della sua glorificazione, ritrae la consegna del pallio al metropolita beneventano. Da Cristo, tramite Pietro e i suoi successori, deriva dunque l’autorità che il metropolita esercita sui suffraganei, che nelle formelle sottostanti risultano – allora, tra XII e XIII secolo – in numero di ventiquattro. La nostra storia si rivela così di una ricchezza straordinaria. Anche noi, come Zaccheo, siamo perciò ricchi; differentemente da lui, la nostra ricchezza non è però frutto di malaffare, ma dello sforzo e della sapienza di uomini e donne che ci hanno preceduti nel segno della fede.
Eppure, come a Zaccheo, questa ricchezza non ci basta, perché il presente chiede a noi risposte per le quali la ricchezza del passato non può sovvenirci. Non possiamo cullarci su di esso, perché quel passato ormai non c’è più, né possiamo rispondere alle questioni di oggi allo stesso modo di ieri, perché non solo i tempi sono diversi, ma anche le nostre possibilità si sono notevolmente ridotte.
Certo, non dev’essere questo il tempo delle lamentazioni sul presente, un presente al quale si vorrebbe opporre magari la storia passata, come se un tempo tutto funzionasse a meraviglia e oggi invece non andasse bene più niente, perché anche ieri c’erano problemi (e non da poco!) così come adesso, accanto ai problemi, abbiamo grandi ricchezze. Nel suo grande discorso in apertura del Concilio Vaticano II (allocuzione Gaudet mater Ecclesia, 12 ottobre 1962), Giovanni XXIII si diceva rattristato a motivo delle «suggestioni di persone, pur ardenti di zelo, ma non fornite di senso sovrabbondante di discrezione e di misura. Nei tempi moderni esse non vedono che prevaricazione e rovina; vanno dicendo che la nostra età, in confronto con quelle passate, è andata peggiorando; e si comportano come se nulla abbiano imparato dalla storia, che pur è maestra di vita. […] A Noi sembra – dichiarava con forza quel papa coraggioso che oggi veneriamo come santo – di dover dissentire da cotesti profeti di sventura, che annunziano eventi sempre infausti, quasi che incombesse la fine del mondo».
La prima cosa che la storia di Zaccheo c’insegna è che non possiamo star fermi, nella speranza che le cose possano sistemarsi da sole, perché questo non accadrà. L’esperienza del passato – non solo del passato della nostra Chiesa beneventana, ma di tutta la Chiesa che è in Italia – insegna che molte volte siamo rimasti fermi, cullandoci sull’esistente, e ci siamo così trovati in difficoltà a leggere i segni pur evidenti di una disgregazione in atto già da molto tempo. Come Zaccheo, dobbiamo muoverci, dobbiamo, cioè, tentare d’intuire le linee dell’evoluzione futura. Come quell’uomo intuì il percorso che il Maestro avrebbe dovuto compiere, anticipandolo per trovarsi poi al posto giusto e al momento giusto, anche noi dobbiamo capire dove la storia ci sta portando e accelerare il passo per farci trovare pronti al luogo dell’incontro. Muoverci, dunque, ma non a caso né guidati dalla nostalgia di un passato che non tornerà. Non è questo, infatti, il tempo per sognare grossi trionfi di fede né oceanici raduni celebrativi; è piuttosto il tempo della semina, della quale non sapremo se vedremo mai la mietitura: Gesù stesso ci avverte che, non di rado, “uno semina e l’altro miete” (Gv 4,37). Dobbiamo tuttavia seminare perché un giorno qualcuno possa mietere frutto abbondante: è questo il compito che il Signore ci affida.
Per raggiungere il sicomoro è necessario allora individuare il fluire della storia, per capire dove la Provvidenza vuole condurci. Il territorio della nostra arcidiocesi ricade in quelle che sono le cosiddette aree interne del Paese, soggette a un progressivo decremento della popolazione. Tutti i nostri Comuni hanno subito, negli ultimi decenni, una drastica contrazione demografica, alla quale non ha peraltro fatto riscontro una crescita del capoluogo, né questa tendenza accenna ad arrestarsi. Cresce inoltre l’età media della popolazione, soggetta a un progressivo invecchiamento. Ne consegue – come dicevo già nel corso del mio intervento all’ultima assemblea pastorale (19 giugno 2017) – che non è più possibile, ormai, pensare unicamente su scala parrocchiale molte delle attività fino ad oggi vissute come tali. Se, ad esempio, nel corso di un anno in un piccolo Comune nascono solo due, tre, quattro bambini (e non sono pochi i Comuni in cui ciò si verifica), come sarà possibile garantire loro un cammino di catechesi ricco degli stimoli necessari per una crescita nella fede? Lo stesso può e deve dirsi se, invece del catechismo, pensiamo a gruppi di giovani o di famiglie: la situazione, in tal caso, diventa ancor più difficoltosa, a meno di non aprirsi a percorsi interparrocchiali o zonali. Nel prossimo triennio ci concentreremo quindi su un tale obiettivo, ormai urgente e improrogabile.
Non basta però salire sul sicomoro, perché dal sicomoro occorre anche scendere.
Se Zaccheo fosse infatti rimasto su quell’albero, avrebbe certo visto il Signore, ma non avrebbe fatto l’esperienza della sua visita. Per salire sul sicomoro è necessario capire come si muove il corso della storia, vale a dire avere gli occhi aperti sulla direzione che il presente ci prospetta, disposti ad ascoltare la verità delle cose anche quando queste non ci piacciono o ci piacciono poco. Per scendere dal sicomoro è invece necessario avere il coraggio della fede, la disponibilità ad avventurarsi su percorsi nuovi, inediti, con tutte le incertezze che questo comporta, nella consapevolezza che non possiamo cedere alla tentazione di cambiare tutto perché tutto resti come prima. Non possiamo, cioè, mettere una toppa nuova su un panno vecchio. Ascoltiamo il monito del Maestro: “Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo porta via qualcosa dal vestito e lo strappo diventa peggiore. Né si versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si spaccano gli otri e il vino si spande e gli otri vanno perduti. Ma si versa vino nuovo in otri nuovi, e così l’uno e gli altri si conservano” (Mt 9,16-17).
Il rischio è quello, per nulla ipotetico, di cedere alla tentazione di restarsene appollaiati sull’albero, perché privi del coraggio di mettere in atto le soluzioni che pure abbiamo intuito, timorosi di rompere equilibri ormai consolidati. Si continuerebbe così in una sorta di accanimento terapeutico, nel tentativo di tenere in vita il più a lungo possibile un organismo malato ormai destinato alla fine. Una prospettiva certo avvilente, ma che ci eviterebbe, nell’immediato, lo sforzo di tentare soluzioni nuove, di entrare in contrasto con ambienti riottosi a muoversi, di pensare percorsi alternativi, di mettersi in gioco in una sfida dall’esito insicuro. Chi può darci il coraggio di scendere dall’albero, di uscire cioè dalle nostre magre certezze, per avviarci sulle strade che lo Spirito vorrà metterci davanti?
Solo se sapremo cogliere, come Zaccheo, lo sguardo d’amore che Gesù posa su di noi, sulla nostra Chiesa, potremo trovare la forza per percorrere vie nuove. Come quel giorno a Gerico, Gesù fissa oggi il suo sguardo su di noi, intimoriti e indifesi come il piccolo uomo sul sicomoro; come Zaccheo, anche noi ci sentiamo infatti piccoli – ancor più piccoli di quel che siamo – di fronte alle richieste del Maestro. Anche noi, però, come l’antico pubblicano, dobbiamo avvertire la forza e l’intensità di quello sguardo e trarre da esso la risolutezza per scendere dall’albero, non perché costretti dalle situazioni o per dovere, ma volentieri, pieni di gioia, disposti – come lui – a mettere da parte vecchie certezze per abbracciare quanto il Signore ci chiede.