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24 novembre 2018 6 24 /11 /novembre /2018 04:34

 

 

LA STELLA COMETA BRILLA SULL'OPERA  SANTUARIO NOSTRA SIGNORA DI FATIMA DI BIRGI (MARSALA - TP)

 

 

E Tu Birgi, non sei davvero una piccola frazione di Marsala: da Te infatti uscirà una guida spirituale, il Servo del Cuore Immacolato di Maria padre Enzo Vitale (ICMS)

Riccardo Fontana

 

(Tratto da: toscanaoggi.it)

 

«Effatà, apriti»: la guarigione del sordomuto

6 settembre, 23ª domenica del Tempo ordinario.

 

DI GIACOMO BABINI

Vescovo emerito di Grosseto

 

Gesù è sempre disponibile di fronte al dolore sordo e muto dell'uomo.

 


Il tema unitario delle letture di questa Domenica è la liberazione del Popolo di Dio.

 

La lettura profetica annuncia i termini festosi della liberazione.

 

Il brano evangelico ne descrive il compimento nel fatto riferito e anche nei suoi dettagli narrativi.



 

 La seconda lettura evidenzia la scelta preferenziale dei poveri.

 

 

Vangelo: «Effatà, apriti»

 


Il Vangelo racconta la guarigione di un sordomuto da parte di Gesù.

 

L'intervento del maestro è pieno di interesse e di delicatezza. Avviene nel silenzio, tanto il sordomuto non sentirebbe nulla, ma Gesù compie gesti espressivi e comprensibili anche da lui.

 

 

I numerosi particolari riportati nella descrizione della guarigione vogliono essere il segno che Gesù non mira soltanto a guarire un difetto corporale dell'ammalato, ma a dare un segno per Israele e per tutti noi.

 

 

Più volte la Scrittura parla di popolo di dura cervice che non ascolta ed è pertanto anche un popolo che non dà valide risposte alle chiamate, un popolo sordomuto.

 

 

Gesù abitualmente non fa miracoli spettacolari.

 

Questa volta chiama il sordomuto in disparte e cerca una difficile mediazione tra la spettacolarità mondana e il segno reale per il popolo.

 

I due contatti fisici, orecchio e lingua sono l'introduzione al rapporto con il Padre: gli occhi al cielo e il suo sospiro. Nel nome della Trinità divina la parola «Apriti» risuona come una grazia divina ad Israele e all'umanità.

 

I Lettura: «Aprire la mente per vedere e gioire della novità»

 


Sul finire del Vangelo si riportano le parole ammirate dei presenti: «Fa udire i sordi e parlare i muti».

 

Si avverte il clima di attesa e di speranza che proprio Isaia nella prima lettura vuol comunicare ai suoi uditori perché abbiano fede perché il Signore dei loro Padri si è dimostrato sempre fedele e la liberazione promessa sicuramente arriverà e sarà più bella di quanto la loro fantasia potrebbe immaginare.

 

Col rifiorire della speranza gli occhi dei ciechi sono di nuovo aperti….

 

Qui si usa il plurale perché l'opera del Messia interessa l'umanità intera.

 

Le frasi successive, i torrenti nella steppa… chiariscono ancora che non si tratta semplicemente di un intervento sanitario, ma dell'effetto della trasformazione della redenzione, prima della fine del tempo, secondo quanto dice l'Apocalisse: «Le cose di prima ecco sono passate, io ne faccio delle nuove» (Ap 21,1-5). E le cose nuove sono pari alla grandezza dell'amore divino, e sono viste dai puri di cuore.

 

II Lettura: «La ricchezza dell'amore del Salvatore»

 


La seconda lettura aggiunge un nuovo motivo di gioia.

 

I sordi, i ciechi, cioè quelli particolarmente bisognosi nella loro povera umanità, in Isaia, erano i beneficiati dal Signore.

 

Nella lettera dell'apostolo si parla di tutti i bisognosi e gli smarriti del mondo che Dio ha beneficato con il dono della fede, anzi li ha resi «eredi del Regno».

 

La mentalità umana, e a volte, anche i Cristiani, dice S.Giacomo, privilegiano i ricchi e trascurano i poveri.

 

In questi casi siamo non solo in contraddizione con le parole di Gesù, ma in contraddizione con il divino ordine della redenzione cristiana che, proprio dalla natura impoverita del deserto fa scaturire le acque, e crescono i giardini là dove l'uomo non avrebbe mai pensato.

 

È lo stile della capanna di Betlemme che rimarrà permanente in Gesù anche quando adulto dovrà ascoltare le polemiche pretestuose, dovrà difendere la verità contrastata, subirà l'annientamento del suo essere umano, ma renderà evidente che colui che si perde per amore si ritroverà nella pienezza dei figli di Dio.

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23 novembre 2018 5 23 /11 /novembre /2018 13:30

 

 

 

L'OPERA SANTUARIO NOSTRA SIGNORA DI FATIMA DI BIRGI (MARSALA - TP):

NEL PICCOLO C'E' TUTTO

 

(Tratto da: vatican.va)

 

PAPA FRANCESCO

 

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA

DOMUS SANCTAE MARTHAE

 

Nel piccolo c'è tutto

 

Martedì, 8 settembre 2015

 

(da: L'Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLV, n.204, 09/09/2015)

 

 

 

 

«Nel piccolo c’è tutto».

Lo stile di Dio che agisce nelle piccole cose ma che ci apre grandi orizzonti è stato al centro della meditazione di Papa Francesco durante la messa celebrata a Santa Marta martedì 8 settembre, memoria liturgica della natività di Maria.

Richiamando il testo della colletta pronunciata poco prima — nella quale si chiede al Signore «la grazia dell’unità e della pace» — il Pontefice ha puntato l’attenzione su due verbi già evidenziati nelle omelie dei «giorni scorsi»: riconciliare e pacificare. Dio, ha detto, «riconcilia: riconcilia il mondo con sé e in Cristo». Gesù, portato a noi da Maria, pacifica, «dà la pace a due popoli, e di due popoli fa uno: degli ebrei e delle genti. Un solo popolo. Fa la pace. La pace nei cuori». Ma, si è chiesto il Papa, «come riconcilia, Dio?». Quale è il suo «stile»? Forse egli «fa una grande assemblea? Si mettono tutti d’accordo? Firmano un documento?». No, ha risposto, «Dio pacifica con una modalità speciale: riconcilia e pacifica nel piccolo e nel cammino».

 

La riflessione di Francesco è quindi iniziata a partire dal concetto di “piccolo”, quel “piccolo” di cui si legge nella prima lettura (Michea, 5, 1-4): «E tu, Betlemme di Efrata, così piccola...».

Questo il commento del Papa: «Così piccola: ma sarai grande, perché da te nascerà la tua guida e lui sarà la pace. Egli stesso sarà la pace», perché da quel “piccolo” «viene la pace».

Ecco lo stile di Dio, che sceglie «le cose piccole, le cose umili per fare le grandi opere».

Il Signore, ha spiegato il Papa, «è il Grande» e noi «siamo i piccoli», ma il Signore «ci consiglia di farci piccoli come i bambini per poter entrare nel regno dei Cieli», dove «i grandi, i potenti, i superbi, gli orgogliosi non potranno entrare». Dio, perciò, «riconcilia e pacifica nel piccolo».

Il Pontefice ha quindi affrontato il secondo concetto, secondo il quale il Signore riconcilia «anche nel cammino: camminando».

E ha spiegato: «Il Signore non ha voluto pacificare e riconciliare con la bacchetta magica: oggi — pum! — tutto fatto! No.

Si è messo a camminare con il suo popolo». Un esempio di questa azione di Dio si ritrova nel vangelo del giorno (Matteo, 1, 1-16.18-23). Un brano, quello della genealogia di Gesù, che può apparire un po’ ripetitivo: «Questo generò questo, questo generò questo, questo generò questo... È un elenco», ha fatto notare Francesco. Eppure, ha spiegato, «è il cammino di Dio: il cammino di Dio fra gli uomini, buoni e cattivi, perché in questo elenco ci sono santi e ci sono criminali peccatori».

Un elenco, quindi, dove si incontra anche «tanto peccato».

Tuttavia «Dio non si spaventa: cammina.

Cammina con il suo popolo. E in questo cammino fa crescere la speranza del suo popolo, la speranza nel Messia». È questa la «vicinanza» di Dio. Lo aveva detto Mosè ai suoi: «Ma pensate: quale nazione ha un Dio tanto vicino come noi?».

Ecco allora che «questo camminare nel piccolo, con il suo popolo, questo camminare con buoni e cattivi ci dà il nostro stile di vita».

Per «camminare da cristiani», per «pacificare» e «riconciliare» come ha fatto Gesù, abbiamo la strada: «Con le beatitudini e con quel protocollo sul quale tutti saremo giudicati. Matteo, 25: “Fate così: piccole cose”». Questo significa «nel piccolo e nel cammino».

A questo punto il Papa ha aggiunto un altro elemento.

Il popolo d’Israele, ha detto, «sognava la liberazione», aveva «questo sogno perché gli era stato promesso».

Anche «Giuseppe sogna» e il suo sogno «è un po’ come il riassunto del sogno di tutta questa storia di cammino di Dio con il suo popolo».

Ma, ha aggiunto Francesco, «non solo Giuseppe ha dei sogni: Dio sogna. Il nostro Padre Dio ha dei sogni, e sogna cose belle per il suo popolo, per ognuno di noi, perché è Padre e essendo Padre pensa e sogna il meglio per i suoi figli».

In conclusione: «Questo Dio onnipotente e grande, ci insegna a fare la grande opera della pacificazione e della riconciliazione nel piccolo, nel cammino, nel non perdere la speranza con quella capacità» di fare «grandi sogni», di avere «grandi orizzonti».

Perciò il Pontefice ha invitato tutti — in questa commemorazione dell’inizio di una tappa determinante della storia della salvezza, la nascita della Madonna — a chiedere «la grazia che abbiamo chiesto nella preghiera, dell’unità, cioè della riconciliazione, e della pace». Ma «sempre in cammino, in vicinanza con gli altri» e «con grandi sogni». Con lo stile del “piccolo”, quel piccolo, ha ricordato, che si ritrova nella celebrazione eucaristica: «un piccolo pezzo di pane, un po’ di vino...». In «questo “piccolo” c’è tutto. C’è il sogno di Dio, c’è il suo amore, c’è la sua pace, c’è la sua riconciliazione, c’è Gesù».

 

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22 novembre 2018 4 22 /11 /novembre /2018 23:57

 

 

PADRE GINO BURRESI, NOSTRO COMPAGNO DI VIAGGIO


Ho letto il seguente breve messaggio di risposta, inviato dal Papa emerito Benedetto XVI al Corriere della Sera, che aveva chiesto notizie su di lui, che ha compiuto in aprile u.s. 91anni.

“Mi ha commosso che tanti lettori desiderino sapere come trascorro quest'ultimo periodo della mia vita. Posso solo dire a riguardo che, nel lento scemare delle forze fisiche, interiormente sono in pellegrinaggio verso Casa. E' una grande grazia per me essere circondato, in quest'ultimo pezzo di strada a volte un po' faticoso, da un amore e una bontà tali che non avrei potuto immaginare. In questo senso, considero anche la domanda dei suoi lettori (la lettera è indirizzata a Massimo Franco, ndr) come accompagnamento per un tratto. Per questo non posso far altro che ringraziare, nell'assicurare da parte mia a voi tutti la mia preghiera”.(Tratto da: ilfoglio)

Ho trovato su internet il seguente discorso che il Papa emerito Benedetto XVI ha tenuto in Piazza San Pietro il 6 aprile 2008 riguardante il brano del vangelo dove si racconta dei discepoli di Emmaus:

Cari fratelli e sorelle,
il Vangelo di questa domenica - la terza di Pasqua - è il celebre racconto detto dei discepoli di Emmaus (cfr Lc 24, 13-35). Vi si narra di due seguaci di Cristo i quali, nel giorno dopo il sabato, cioè il terzo dalla sua morte, tristi e abbattuti lasciarono Gerusalemme diretti ad un villaggio poco distante chiamato, appunto, Emmaus. Lungo la strada si affiancò ad essi Gesù risorto, ma loro non lo riconobbero. Sentendoli sconfortati, egli spiegò, sulla base delle Scritture, che il Messia doveva patire e morire per giungere alla sua gloria. Entrato poi con loro in casa, sedette a mensa, benedisse il pane e lo spezzò, e a quel punto essi lo riconobbero, ma lui sparì dalla loro vista, lasciandoli pieni di meraviglia dinanzi a quel pane spezzato, nuovo segno della sua presenza. E subito i due tornarono a Gerusalemme e raccontarono l'accaduto agli altri discepoli.
La località di Emmaus non è stata identificata con certezza. Vi sono diverse ipotesi, e questo non è privo di una sua suggestione, perché ci lascia pensare che Emmaus rappresenti in realtà ogni luogo: la strada che vi conduce è il cammino di ogni cristiano, anzi, di ogni uomo. Sulle nostre strade Gesù risorto si fa compagno di viaggio, per riaccendere nei nostri cuori il calore della fede e della speranza e spezzare il pane della vita eterna. Nel colloquio dei discepoli con l'ignoto viandante colpisce l'espressione che l'evangelista Luca pone sulle labbra di uno di loro: "Noi speravamo..." (24, 21). Questo verbo al passato dice tutto: Abbiamo creduto, abbiamo seguito, abbiamo sperato..., ma ormai tutto è finito. Anche Gesù di Nazaret, che si era dimostrato profeta potente in opere e in parole, ha fallito, e noi siamo rimasti delusi. Questo dramma dei discepoli di Emmaus appare come uno specchio della situazione di molti cristiani del nostro tempo: sembra che la speranza della fede sia fallita. La stessa fede entra in crisi, a causa di esperienze negative che ci fanno sentire abbandonati dal Signore. Ma questa strada per Emmaus, sulla quale camminiamo, può divenire via di una purificazione e maturazione del nostro credere in Dio. Anche oggi possiamo entrare in colloquio con Gesù, ascoltando la sua parola. Anche oggi Egli spezza il pane per noi e dà se stesso come nostro Pane. E così l'incontro con Cristo risorto, che è possibile anche oggi, ci dona una fede più profonda e autentica, temprata, per così dire, attraverso il fuoco dell'evento pasquale; una fede robusta perché si nutre non di idee umane, ma della Parola di Dio e della sua presenza reale nell'Eucaristia.
Questo stupendo testo evangelico contiene già la struttura della Santa Messa: nella prima parte l'ascolto della Parola attraverso le Sacre Scritture; nella seconda la liturgia eucaristica e la comunione con Cristo presente nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue. Nutrendosi a questa duplice mensa, la Chiesa si edifica incessantemente e si rinnova di giorno in giorno nella fede, nella speranza e nella carità. Per intercessione di Maria Santissima, preghiamo affinché ogni cristiano ed ogni comunità, rivivendo l'esperienza dei discepoli di Emmaus, riscopra la grazia dell'incontro trasformante con il Signore risorto. (Tratto da: vatican.va)

Vorrei dire a Papa Benedetto XVI che anch'io mi sono sentito come i discepoli di Emmaus.
Anche io ho avuto una crisi di fede a causa della condanna di Padre Gino Burresi del 27 maggio 2005, approvata in forma specifica da Benedetto XVI, che non ammette appello.
Anche io ero triste, abbattuto e deluso. Anche a me “sembrava che la speranza della fede fosse fallita.”
Finché lungo la strada della vita Giò, Padre Gino Burresi, con il suo commento del 2 aprile 2011
“ si e fatto mio compagno di viaggio, per accendere nel mio cuore il calore della fede e della speranza.”
Anche a me è successo di avere contro di me tutti coloro che non hanno riconosciuto in Padre Gino Burresi l'autore di quel messaggio, di quel suo appello alla Chiesa per mitigare una condanna che non ammette appello.
L'unica differenza tra me e i discepoli di Emmaus consiste nel fatto che essi, dopo la morte di Gesù, erano tristi ed abbattuti, mentre a me, dopo la morte di Padre Gino Burresi si stanno piano piano aprendo gli occhi per riconoscere che Padre Gino con il suo messaggio del 2 aprile 2011, pur partendo dalle sue fragilità, dalla sua caduta, abbia in un certo modo prestato la sua voce a Gesù Cristo che parla alla Sua Chiesa, con un tono quasi implorante.

Gesù piange sulla Chiesa di Papa Benedetto XVI:

“Sono dentro,
donna o uomo che vive li
nel seno di questa chiesa.
Da me amata,
desiderata e capita...
Sono dentro.
Mi manca aria,
Aspetto l'alba,
Vedo tramonto.
La chiesa dei cardinali
madri per gioielli,
matrigne per l'amore.
Ho inciampato
e la chiesa non mi sta
raccogliendo.
Solitudine a me dona,
a lei che avevo chiesto
Maternità.
E l'anima mia,
Povera,
Riconosce lo sbaglio
di aver scelto il dentro e,
Vorrei uscire
ma dentro dovrò stare,
per la madre
che non accetta,
Il bene del vero
che ho scoperto
per l'anima mia.

Chiesa,
Antica e poco nuova,
Barca in alto mare,
Getta le reti
Su chi ti chiede maternità.
Madre o matrigna,
per me oggi
barca in alto mare
che teme solo di
Affondare!
Matrigna.”
Giò 04/02/2011 14:27

 

Tento di fare una parafrasi di quel messaggio:

Parafrasi:

Sono Gesù, il tuo prossimo, uomo o donna che sia,

che vive con voi in seno alla Chiesa, come ho vissuto nel seno di mia Madre Maria.

La Chiesa,

da me amata, voluta, perché l'ho edificata io, e capita.

Sono dentro, ma mi manca l'aria, perché la Chiesa è diventata il mio sepolcro.

Aspetto invano la Resurrezione, avendo la Chiesa spento il sole di Dio.

Attaccata al denaro, poco propensa all'amore.

Quando inciampo, perché mi carico delle vostre colpe, non vengo raccolto dalla Chiesa,

che mi abbandona alla solitudine nell'Orto degli Ulivi.

La Chiesa che dovrebbe avere come modello Maria, mia Madre,

e dispensare maternità.

L'anima mia vive nella Chiesa,

lo Spirito Santo è l'anima della Chiesa

e dunque non posso abbandonarla, anche se ci soffoco dentro,

perché “l'ho chiesta io al Padre” (tratto da omelia di Papa Ratzinger, messa del giovedì santo),

vengo tenuto prigioniero,

mentre invece io, essendo Carità nella Verità,

voglio uscire allo scoperto.

“... è anche un esame di coscienza per noi. In quest'ora il Signore ci chiede: vivi tu, mediante la fede, nella comunione con me e così nella comunione con Dio? O non vivi forse piuttosto per te stesso, allontanandoti così dalla fede? E non sei forse con ciò colpevole della divisione che oscura la mia missione nel mondo; che preclude agli uomini l'accesso all'amore di Dio?” (tratto da omelia di Papa Ratzinger, messa del giovedì santo)

“Chiesa, Antica e poco nuova”, sii lenta all'ira nei miei confronti!

Una “Chiesa Antica” perché per molti versi ancora ancorata al Dio di ira

dell'Antico Testamento e “poco nuova” perché in pochi versi fedele al Dio

d'amore del Nuovo Testamento.

Ho come l'impressione che Padre Gino Burresi si sia addormentato nel sonno eterno ancora con l'immagine della Chiesa di Papa Benedetto XVI adirata con lui e non con l'immagine della Chiesa misericordiosa di Papa Francesco.

E come questo ha fatto tanto soffrire lui, continuerà a far soffrire tanto anche me, fintantoché la Chiesa non troverà il coraggio di riconoscere pubblicamente il suo errore di non aver mostrato a Padre Gino Burresi, nell'ora della sua morte, “la misericordia, che è il lato visibile ed efficace dell'essenza di Dio, che è amore (cfr. Gv 4,8.16)” (Tratto da: La misericordia nel Padre Lanteri)



Barca in alto mare,

Chiesa, fa' salire a bordo della barca il tuo Gesù, che ti può salvare,

tu Chiesa, che essendo modello di Maria dovresti donare maternità

mentre invece vuoi farcela da sola e hai paura di affondare

perché non sei madre, sei matrigna.

Chiedo aiuto al Papa emerito Benedetto XVI per completare o correggere l'interpretazione.
Desidero che si cimenti in questa impresa, prima di tornare alla Casa del Padre.

Spero un giorno di poter tornare a partecipare alla Santa Messa. Vuol dire che avrò interiorizzato quanto Benedetto XVI descrive sul brano di Emmaus.

“Questo stupendo testo evangelico contiene già la struttura della Santa Messa: nella prima parte l'ascolto della Parola attraverso le Sacre Scritture; nella seconda la liturgia eucaristica e la comunione con Cristo presente nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue.”

Perché sì, mi sento anch'io un discepolo di Emmaus.

Chiedo a Padre Gino e al Papa emerito:

«Restate con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino».

Riccardo Fontana
MINA - Compagna di viaggio - (di Giorgio Faletti) - YouTube

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22 novembre 2018 4 22 /11 /novembre /2018 23:00

 

 

 

 

 

GESU' CRISTO  DEFIBRILLATORE PER I LENTI DI CUORE

 

 

UN DEFIBRILLATORE DONATO ALL’OPERA DI BIRGI

 

 

(Tratto da: operabirgi.it)

 

Lunedì 24 Aprile 2017, alle ore 18,30, presso l’Opera-Santuario Nostra Signora di Fatima in Birgi sarà celebrata una Messa in suffragio del dott. Salvatore Roccaforte, nel settimo anniversario della sua prematura ed improvvisa scomparsa.
Per l’occasione la famiglia Roccaforte e il Rotary club di Marsala doneranno un defibrillatore all’Opera di Birgi, in memoria del dott. Salvatore Roccaforte.

 

Il 24 marzo scorso, in un incontro avuto presso l’Opera di Birgi, padre Enzo Vitale icms (Rettore del Santuario), il Dr. Domenico Roccaforte, il Dr. Riccardo Lembo ed il Dr. Vito Claudio Barraco del Rotary club Marsala, hanno condiviso l’idea di poter perpetuare l'impegno meritorio di salvare vite umane del dott. Salvatore Roccaforte, anche dopo la sua prematura scomparsa attraverso la donazione di un defibrillatore e la celebrazione eucaristica in suffragio del giovane medico.

 

(Tratto da:psa1974.wordpress.com)

 

 

Stolti e lenti di cuore

Commento al Vangelo del 30 aprile 2017.

 

«Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti!» (Lc 24,13-35).

Quanta dolcezza, quanta passione, quanto desiderio in queste parole del Signore risorto, rivolte a tutti noi.

E quanta chiarezza! Per lui, il risorto, è ovvio che i profeti avevano parlato di Lui. Di Lui e della sua Pasqua. Lui, il Cristo che, per entrare nella sua gloria doveva passare attraverso la passione.

Viene da chiedersi come mai in Gesù questa cosa è così semplicemente chiara e noi facciamo così fatica! Fatica a fidarci delle Scritture e ad amarle come Parola di Dio per noi: le guardiamo talvolta con sospetto, perché sono difficili, o perché noi dobbiamo essere ‘critici’, o perché leggiamo ma non ascoltiamo.

Stolti e lenti di cuore… Eppoi fatica ad ammettere che la gloria si raggiunge attraversando la sofferenza: per la nostra sapienza appare ingiusto, per la nostra intelligenza risulta impossibile, per la nostra immagine (diabolica) di Dio risulta inaccettabile.

Scivoliamo facilmente nella stoltezza di ritenere che la sofferenza venga da un Dio che si diverte capricciosamente alle nostre spalle e ci obbliga a vivere la sofferenza…

Ma per Gesù non c’è fatica. Perché Lui ha veramente le idee chiare. Non è né stolto né lento di cuore. Conosce il Padre e i suoi progetti. Sa che il Padre non desidera altro che la salvezza. Sa che dal Padre non esce una virgola di male, e che il male viene fuori dalla nostra condizione di peccato e dalle nostre scelte sbagliate. Sa che sulla croce non c’è andato per colpa del Padre, ma per colpa nostra. Sa che noi avevamo bisogno che il Suo amore per noi si manifestasse nel perdono certo dei nostri peccati, nella accoglienza radicale della nostra persona (e di ogni persona umana), nella capacità di resistere nella sofferenza e nella morte.

Ci rivela, Gesù, che il nostro bisogno è preceduto dalla passione e dalla compassione del Padre, il quale non si lascia battere da nessuno nell’amore.

Stolti e lenti di cuore: così ci dobbiamo sentire quando con i nostri poveri ragionamenti disprezziamo Dio, ci ergiamo a suoi giudici, ci lamentiamo che non fa nulla per noi.

Come facevano Cleopa e il suo amico, delusi e arrabbiati sulla strada del ritorno, disperati dopo l’illusione di pochi giorni prima.

E Gesù che fa? Che ha fatto allora? Che sta facendo oggi? Anzitutto si fa compagno di viaggio.

Non abbaglia con l’onnipotenza mostrata nella risurrezione (venire fuori dal sepolcro, contraddicendo tutte le leggi della natura, è roba che solo chi ha stabilito quelle leggi può sperimentare: la risurrezione è una nuova creazione!), si affianca, ascolta, lascia sfogare…

Gesù si fa maestro. Senza mostrare il diploma o la laurea. Non ha bisogno di anteporre distintivi. Lui pone semplicemente la sua Parola autorevole, che fa ardere il cuore.

È questo il suo distintivo: dire Parole vere, che si mischiano tra le mille nostre parole stolte e accendono scintille, e poi fuochi sempre più ardenti, di consolazione.

A patto che ci mettiamo almeno un poco ad ascoltare con calma e a discernere tra le parole che navigano confusamente nelle nostre teste e i sentimenti che si intrecciano nei nostri cuori.

Gesù, poi, si fa delicatamente ospite.

Senza imporsi.

Fa finta di voler andare oltre, ma è chiaro che muore dalla voglia di entrare in quella casa di Emmaus e farsi accogliere dai suoi due discepoli.

È in questa ospitalità che finalmente nasce la fede. O meglio, che Gesù può far nascere la fede, sempre e comunque dono suo, dono che senz’ombra di dubbio lui vuole suscitare in tutti.

È nell’apertura intima a Lui, e cioè nella esperienza di amore accogliente ed accolto, che si verifica, si rende vera la fede, si aprono gli occhi, ci si accorge della stoltezza perdonata e ci si spalanca, finalmente, alla sapienza del Padre.

Ed è nella testimonianza della Chiesa che il Signore si conferma come ospite gradito e consolante: «Davvero il Signore è risorto, ed è apparso a Simone» si sentono dire i due di Emmaus prima ancora di raccontare la loro esperienza.

Un tripudio di gioia finalmente liberata e condivisa.

La gioia che viene dalla certezza che il Signore è risorto, vive con noi, ci parla, si fa nostro ospite.

Di più: si fa nostro cibo.

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22 novembre 2018 4 22 /11 /novembre /2018 18:20

 

 

O IMMACOLATA FA' BATTERE I CUORI INVIDIOSI IN RITIRATA

 

(Tratto da: Cuore di Gesù cuore dell'uomo)

 

di Padre Stefano Maria Manelli

 

L'invidia è il verme roditore che non solo impedisce la misericordia verso chi ha commesso il male, ma vuole distruggere anche il bene che vede nei fratelli.

"Come l'acqua spegne il fuoco - diceva S. Vincenzo de' Paoli - così l'invidia spegne la carità". E S. Basilio paragona gli invidiosi agli avvoltoi che vanno a cercare e a trovare le carogne.

L'invidia fa rodere dentro. Suscita l'avversione del cuore. Alimenta sentimenti di disprezzo verso l'altro.

Vorrebbe veder l'altro umiliato e oltraggiato. Fa arrivare fino all'odio e al delitto. S. Cipriano scriveva che l'invidia " è il seme di molte scelleratezze".

Si pensi a Caino, invidioso della rettitudine di Abele, fino al punto di assassinarlo. Si pensi A Giuseppe, venduto a ignoti mercanti dai suoi invidiosi fratelli. Si pensi al re Saul, che tentò di uccidere David, per l'invidia che provava a sentir cantare dalla ebrea: " Saul ne uccise mille -e David diecimila" (Sam 18,7).

Si pensi agli scribi e ai farisei, che invidiavano Gesù per i suoi discorsi e miracoli, e cercavano malvagiamente di sopprimerlo, perché "se lo lasciamo fare, tutti crederanno in lui" (Gv 11,48).

Tra parenti e conoscenti, tra colleghi e compagni, tra amici ed estranei, quanto spesso il cuore dell'uomo è pieno di invidia per il bene degli altri.

Il bene materiale, il bene spirituale, il bene morale: ogni bene può essere oggetto di invidia e nulla sfugge a questa serpe velenosa e strisciante.

Non per niente gli antichi dipingevano l'invidia sotto forma di una vecchia pallida che mangia carne di serpente e di vipera.

Il cuore dell'invidioso è pieno di veleno, capace di rovinare ogni bene del fratello, senza riguardo né ritegno non solo per la misericordia, ma neppure per la giustizia e per l'onestà. Diceva bene S. Giovanni Crisostomo: "Solo l'invidia non offre alcun vantaggio, nemmeno apparente; in essa tutto è vergogna, dolore, perversità".

E anzi, lo stesso S. Giovanni Crisostomo arriva a dire che l'invidia è un peccato più che diabolico, perché i demoni invidiano l'uomo, ma non si invidiano tra loro.

Il Cuore di Gesù ci purifichi con le sue fiamme da questo terribile veleno, liberi il nostro cuore da questo perfido serpente dell'invidia, ci doni la sua dolce misericordia verso tutti.

 

Proposito: Fare un atto di carità o di cortesia a una persona che ci ha fatto del male.

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21 novembre 2018 3 21 /11 /novembre /2018 20:20

 

 

IL PRIMO MIRACOLO NELLA VITA PUBBLICA DI PADRE GINO BURRESI

 

 

Vi ricordate l'ictus che ha subito mio padre circa

un mese fa?

Gli hanno fatto una Tac cerebrale con contrasto

e sapete cosa gli hanno riscontrato? : nessun

danno.

 

Certo avrà bisogno di una fisioterapia rieducativa

degli arti inferiori tre volte a settimane, perché ha

le gambe che gli fanno giacomo giacomo.

 

Ma fortunatamente il cervello e il cervelletto

sono rimasti indenni.

 

Io glielo avevo detto che Padre Gino Burresi ci

avrebbe aiutati ed ero praticamente sicuro che

dagli accertamenti non sarebbe stato messo in

evidenza nulla di anomalo.

 

Tant'è che  persino i medici sono rimasti spiazzati.

 

Mi sta capitando una cosa strana da quando

Padre Gino ha iniziato la sua vita pubblica: penso

a lui o parlo di lui e mi sembra di avere a che fare

con Gesù in persona.

 

Papà, quando gli ho detto che era grazie a Padre

Gino se non aveva riportato nulla di grave, mi ha

risposto: - lo facciamo santo?-

 

- Magari - gli ho replicato.

 

Sapete l'appellativo che ho dato a quel troll

che si diverte a radiare tutto ciò che scrivo

su Padre Gino, su Emanuela Orlandi eccetera?

 

Attila, ecco come l'ho chiamato, che vuol dire

devastatore.

 

Simile al vento distruttore che ha colpito l'Italia

non troppo tempo fa.

 

Che dite, io sarò simpatico ad Attila?

 

Riccardo Fontana

 

 

 

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21 novembre 2018 3 21 /11 /novembre /2018 12:38

 

 

L'IMMACOLATA RICOSTRUIRA' IL PONTE DISTRUTTO

 

(Tratto da: operabirgi.it)

 

IL PONTE DELL’IMMACOLATA

 

17/01/2018

 

di Angelica, Annarita, Laura, Lorella, Marilena, Rosa e Patrizia

 

Un gruppo di sessanta ragazzi, dal 7 al 10 Dicembre, si ritrova a Villa Troili, in Roma, per condividere dei giorni in fraternità.
La “3 giorni”, un incontro nazionale per giovani dai 18 ai 30 anni, organizzato dalla FCIM e che mira a riunire giovani di tutta Italia che simpatizzano per il Movimento.
Durante la “3 giorni” abbiamo avuto modo di ricevere tanti insegnamenti dalle catechesi svolte da vari sacerdoti che ci hanno parlato della Consacrazione al Cuore Immacolato di Maria e della missione che ogni cristiano ha la responsabilità di portare Cristo al mondo, ovvero, essere Apostolo.
Abbiamo ascoltato la testimonianza di Beatrice Fazi, un’attrice bella e simpatica, che ha raccontato tutta la sua esperienza di vita e ci ha fatto capire che dopo ogni caduta ci si può rialzare e ricominciare più forti di prima.
Dopo le conferenze e la testimonianza ci siamo confrontate con gli altri ragazzi anche per fare conoscenza. Ci sono stati momenti di confessione e confronto con i Servi e le Serve, lasciando una parte di noi nelle loro mani.
Non sono mancati i momenti di preghiera, adorazione e messa, in cui, tra canti, letture e lacrime ci siamo affidate a Dio e alla Vergine Madre. Momenti intensi che hanno messo un seme alle nostre anime per fortificare e portare frutto.
Il momento di vera comunione tra ragazzi sono state le serate notturne di Risiko, vari giochi con le carte e la gita ai Castelli Romani. E soprattutto la sorpresa di essere ospitati nella bellissima casa di fratel Giambattista.
Non sono mancati i momenti di confronto solo tra ragazzi, che hanno permesso di creare buoni e forti legami che si prova a mantenere nonostante la distanza e il vedersi poche volte all’anno.
Come prima esperienza, svolta durante il “ponte dell’Immacolata”, proprio per essere maggiormente avvolti dalle braccia di Maria, la nostra Madre Celeste, dobbiamo dire che è stata un’esperienza fantastica che ci ha portato ad essere strumenti verso gli altri e gli altri essere strumento verso di noi. Ci ha permesso di lavorare su noi stessi, per cercare la pace, la tranquillità, la serenità, la gioia. Il riscoprirci figli di un unico Padre, che si prende cura di noi, rispettando sempre la nostra libertà.
Ci siamo sentiti Famiglia, creando tra noi comunione, simpatie, fraternità, unione. C’è chi ha legato di più e chi meno, ma nonostante questo lo spirito di amicizia e fratellanza non è mancato.
Una “3 giorni” indimenticabili, pieni di tante avventure e tanta crescita.

 

 

Cari lettori, care lettrici, uomini e donne di buona

volontà, questo è un post della pagina personale

facebook di Padre Enzo Vitale, ICMS  (Servo del

Cuore Immacolato di Maria), parroco e rettore

dell'Opera Santuariio Nostra Signora di Fatima di

Birgi (Marsala - TP), che sono  riuscito a

recuperare, dopo che qualcuno ha ordinato,

pochi giorni fa,  a padre Enzo Vitale di cancellare

pressoché tutta la sua pagina facebook, solo

perché padre Enzo mi aveva permesso di

pubblicare  sulla sua pagina facebook 411 tra

articoli e testimonianze provenienti da tutto il

mondo riguardanti il Servo del Cuore Immacolato

di Maria Padre Gino Burresi, condannato da Papa

Benedetto XVI in data 27 maggio 2005, con

l'intento di farlo riabilitare da Papa Francesco

attraverso l'avvio di una revisione del processo a

suo carico.

Padre Enzo Vitale è stato punito per aver

dimostrato il suo amore e la sua solidarietà

verso un suo confratello, padre Gino Burresi,

morto in data 3 maggio 2018 alle ore 15,00 come

Nostro Signore Gesù.

E'  forse questo il concetto di carità e di

misericordia che la Chiesa ci vuole trasmettere

con il Natale alle porte?

 

Riccardo Fontana

 

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21 novembre 2018 3 21 /11 /novembre /2018 08:30

 

 

IL CUORE MARIANO DI PADRE ENZO VITALE (ICMS)

 

Ieri, prima di addormentarmi, ho voluto pregare

l'Ave Maria tre volte.

 

Tre volte l'ho posata sul cuore mariano di padre

Enzo Vitale, affinché le destinasse a chi ne ha più

bisogno.

 

E stasera farò lo stesso.

 

Maria ha posato il suo sguardo su padre Enzo

Vitale e io non posso che esserne felice.

 

Il cuore di padre Enzo è buono, materno,

accogliente.

 

Mi ha aperto la porta della sua pagina facebook,

senza nemmeno conoscermi, quando ho bussato

con il cuore di Padre Gino Burresi  in mano,

in cerca di maternità.

 

Provate a fare anche voi questa esperienza, e mi

direte se mai vi stancherete di ringraziare.

 

Padre Enzo Vitale ha corretto i miei passi falsi e

continuerà  ancora a farlo,  attraverso  la libera

circolazione dei pensieri.

 

 

Padre Enzo Vitale è stata la mia guida spirituale

per quasi tre mesi, il tempo che ci hanno

concesso prima di irrompere con la ruspa.

 

Ma, come dice Padre Enzo:

 

"«dove è finita la paura?». Si è persa tra le braccia di Colei che sempre mi chiama e che anche adesso mi sta chiamando per recitare quella preghiera di cui ho appreso il senso diventando prete, ma che solo in Paradiso, se Lei mi aiuterà ad arrivarci – e lo farà! – ne comprenderò la potenza. Una preghiera che pure è una sinfonia d’amore, di parole che hanno il sapore del Cielo, perché fu l’Arcangelo (Gabriele) a pronunciarle all’inizio del Tempo."

 

E' bello pregare l'Ave Maria con padre Enzo Vitale.

 

Riccardo Fontana

 

 

 

 

 

 

 

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21 novembre 2018 3 21 /11 /novembre /2018 04:42

 

 

 

UN SICOMORO NEL PRESEPE DI PADRE GINO BURRESI

 

 

Padre Gino Burresi, in trasferta a Gerico, alla sabbia preferisce un bell'albero di sicomoro nel suo presepe di Montignoso.

 

Riccardo Fontana

 

 

 

(Tratto da: diocesidibenevento.it)

 

 

Il coraggio di scendere dal sicomoro. Intervento dell’Arcivescovo per l’inaugurazione dell’anno pastorale

 

L’evangelista Luca (19,1-10) narra che Gesù entrò un giorno nella città di Gerico e venne subito circondato da una vasta folla che gli faceva ala mentre ne percorreva le strade. Tra questa vi era anche un uomo di nome Zaccheo, un ricco capo dei pubblicani, il quale, a causa della sua piccola statura, non riusciva però a vedere Gesù: deciso a superare i limiti che gli erano stati imposti dalla natura, egli corse dunque avanti lungo il cammino che Gesù avrebbe dovuto compiere e, per poterlo finalmente scorgere, salì su un sicomoro. Fu così con sua grande sorpresa che quando Gesù giunse nei pressi dell’albero lo vide alzare lo sguardo e dirgli: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». L’uomo allora scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano dicendo: «È entrato in casa di un peccatore!». Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

 

La grazia di un incontro


L’episodio, uno dei più intensi e commoventi di tutto il vangelo di Luca, ci mostra un Gesù che non fugge la vita degli uomini, ma attraversa la città; ci è facile, perciò, immaginarlo tra i banchi dei venditori, tra la polvere delle vie e delle piazze pubbliche, mentre cerca di avanzare a fatica tra la folla che gli fa ressa intorno (cf. anche Mc 5,24.31). Nella calca c’è anche Zaccheo, «capo dei pubblicani e ricco». I pubblicani, qualcosa di molto simile a strozzini legalizzati, erano tipi poco graditi: oltre a succhiare il sangue della povera gente essi favorivano anche l’odiato dominio straniero. Zaccheo, dunque, era un uomo temuto perché i soldi lo rendevano potente, ma non certo amato: probabilmente, egli poteva cogliere negli sguardi degli altri il disprezzo che nutrivano nei suoi confronti.


Incuriosito dalla gran confusione che animava le vie di Gerico, Zaccheo volle scoprirne la ragione e quando capì che il motivo di tanta agitazione era Gesù, gli fu facile intuire che quell’uomo, a differenza sua, era molto amato. Curiosità, invidia e, forse, inconscia ammirazione si agitarono dentro di lui, facendo emergere il desiderio di volerlo vedere di persona. Tuttavia, nel momento stesso in cui si decise a seguire un tale impulso, tornarono a galla i suoi limiti più frustranti: neppure i tanti soldi che aveva accumulato gli avevano infatti permesso di superare i suoi problemi “di statura”. Ricco e potente, con tutta probabilità egli era un uomo infelice e forse complessato sin dall’infanzia. Chissà quante volte, da bambino, sarà stato preso in giro dai compagni, vilipeso, perché i piccoli sono costretti – quasi sempre – a sottostare ai voleri dei più grandi! Se si era tanto affannato ad ammucchiare soldi non sarà stato forse perché sperava di potersi prendere così la propria rivincita? Di ottenere, attraverso il denaro, quell’affetto che non era riuscito ad avere in altro modo, o perlomeno il rispetto, o anche solo la paura degli altri?


Corse dunque ai ripari: intuendo il tragitto che Gesù avrebbe dovuto fare, si avvantaggiò nel percorso e salì su un sicomoro. Quando Gesù, passando, giunse nei pressi di quell’albero, «alzò lo sguardo». È facile immaginare l’intensità di quel momento: Gesù si fermò e altrettanto fecero coloro che lo seguivano; guardò verso Zaccheo, quindi tutti fecero lo stesso; Zaccheo avvertì tutti quegli sguardi concentrati su di lui, ma comprese anche – e bene! – i diversi sentimenti che da essi promanavano: gli sguardi della folla, tesi e arrabbiati; lo sguardo di Gesù, invece, del tutto differente. Forse per la prima volta dopo tanti anni, Zaccheo non si sentì temuto né odiato, ma accolto e amato come persona, semplicemente per quello che era.


Quel forestiero è un uomo che comanda. È lui, infatti, a impartire un ordine imperioso: «Scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Zaccheo, fino ad allora abituato a comandare, non era stato però appagato da quel potere; possiamo anzi supporre che più passavano gli anni più egli avvertiva l’amarezza della solitudine; ora è un altro a dargli ordini e ne sembra felice. «Lo accolse – dice l’evangelista – pieno di gioia». Il Signore cambierà radicalmente la vita di Zaccheo, ma egli non avrà paura di perdere quella che era la sua precedente sicurezza (il denaro), perché ha finalmente scoperto qualcosa di più prezioso.


Eppure, le conseguenze di una simile scelta non furono affatto indolori: «vedendo ciò, tutti mormoravano». Non era la prima volta che Gesù finiva per scontrarsi con l’opposizione dei benpensanti: dovette addirittura affrontare l’incomprensione dei suoi stessi discepoli quando si fermò a parlare con la samaritana (Gv 4,27); tuttavia, a Gesù poco importava di ciò, soprattutto quando ad essere in ballo era la salvezza di una persona, al punto che non si fece scrupolo di chiamare Matteo alla sua sequela mentre questi era ancora seduto al banco delle imposte (Mt 9,9). Zaccheo, però, «alzatosi» (il verbo è lo stesso che si usa per la risurrezione; questa è, per lui, è una vera e propria rinascita), disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». La sua è una conversione che dà subito frutti (Mt 3,8), e ciò che sembrava perduto è salvato dal Figlio dell’Uomo, messosi sulle tracce dei peccatori per rialzarli (tutto il cap. 15 del Vangelo di Luca è centrato su questa misericordia divina).

 

La lezione di quell’incontro


È alla luce di questa pagina evangelica che vorrei ora rileggere la nostra storia e trovare il senso di questa giornata. Come Chiesa beneventana possiamo vantare un glorioso passato: la Janua maior, lo stupendo capolavoro che permette l’accesso alla nostra cattedrale, ne è la testimonianza emblematica; la porta bronzea, infatti, dopo le storie della vita di Cristo e della sua glorificazione, ritrae la consegna del pallio al metropolita beneventano. Da Cristo, tramite Pietro e i suoi successori, deriva dunque l’autorità che il metropolita esercita sui suffraganei, che nelle formelle sottostanti risultano – allora, tra XII e XIII secolo – in numero di ventiquattro. La nostra storia si rivela così di una ricchezza straordinaria. Anche noi, come Zaccheo, siamo perciò ricchi; differentemente da lui, la nostra ricchezza non è però frutto di malaffare, ma dello sforzo e della sapienza di uomini e donne che ci hanno preceduti nel segno della fede.

Eppure, come a Zaccheo, questa ricchezza non ci basta, perché il presente chiede a noi risposte per le quali la ricchezza del passato non può sovvenirci. Non possiamo cullarci su di esso, perché quel passato ormai non c’è più, né possiamo rispondere alle questioni di oggi allo stesso modo di ieri, perché non solo i tempi sono diversi, ma anche le nostre possibilità si sono notevolmente ridotte.


Certo, non dev’essere questo il tempo delle lamentazioni sul presente, un presente al quale si vorrebbe opporre magari la storia passata, come se un tempo tutto funzionasse a meraviglia e oggi invece non andasse bene più niente, perché anche ieri c’erano problemi (e non da poco!) così come adesso, accanto ai problemi, abbiamo grandi ricchezze. Nel suo grande discorso in apertura del Concilio Vaticano II (allocuzione Gaudet mater Ecclesia, 12 ottobre 1962), Giovanni XXIII si diceva rattristato a motivo delle «suggestioni di persone, pur ardenti di zelo, ma non fornite di senso sovrabbondante di discrezione e di misura. Nei tempi moderni esse non vedono che prevaricazione e rovina; vanno dicendo che la nostra età, in confronto con quelle passate, è andata peggiorando; e si comportano come se nulla abbiano imparato dalla storia, che pur è maestra di vita. […] A Noi sembra – dichiarava con forza quel papa coraggioso che oggi veneriamo come santo – di dover dissentire da cotesti profeti di sventura, che annunziano eventi sempre infausti, quasi che incombesse la fine del mondo».


La prima cosa che la storia di Zaccheo c’insegna è che non possiamo star fermi, nella speranza che le cose possano sistemarsi da sole, perché questo non accadrà. L’esperienza del passato – non solo del passato della nostra Chiesa beneventana, ma di tutta la Chiesa che è in Italia – insegna che molte volte siamo rimasti fermi, cullandoci sull’esistente, e ci siamo così trovati in difficoltà a leggere i segni pur evidenti di una disgregazione in atto già da molto tempo. Come Zaccheo, dobbiamo muoverci, dobbiamo, cioè, tentare d’intuire le linee dell’evoluzione futura. Come quell’uomo intuì il percorso che il Maestro avrebbe dovuto compiere, anticipandolo per trovarsi poi al posto giusto e al momento giusto, anche noi dobbiamo capire dove la storia ci sta portando e accelerare il passo per farci trovare pronti al luogo dell’incontro. Muoverci, dunque, ma non a caso né guidati dalla nostalgia di un passato che non tornerà. Non è questo, infatti, il tempo per sognare grossi trionfi di fede né oceanici raduni celebrativi; è piuttosto il tempo della semina, della quale non sapremo se vedremo mai la mietitura: Gesù stesso ci avverte che, non di rado, “uno semina e l’altro miete” (Gv 4,37). Dobbiamo tuttavia seminare perché un giorno qualcuno possa mietere frutto abbondante: è questo il compito che il Signore ci affida.


Per raggiungere il sicomoro è necessario allora individuare il fluire della storia, per capire dove la Provvidenza vuole condurci. Il territorio della nostra arcidiocesi ricade in quelle che sono le cosiddette aree interne del Paese, soggette a un progressivo decremento della popolazione. Tutti i nostri Comuni hanno subito, negli ultimi decenni, una drastica contrazione demografica, alla quale non ha peraltro fatto riscontro una crescita del capoluogo, né questa tendenza accenna ad arrestarsi. Cresce inoltre l’età media della popolazione, soggetta a un progressivo invecchiamento. Ne consegue – come dicevo già nel corso del mio intervento all’ultima assemblea pastorale (19 giugno 2017) – che non è più possibile, ormai, pensare unicamente su scala parrocchiale molte delle attività fino ad oggi vissute come tali. Se, ad esempio, nel corso di un anno in un piccolo Comune nascono solo due, tre, quattro bambini (e non sono pochi i Comuni in cui ciò si verifica), come sarà possibile garantire loro un cammino di catechesi ricco degli stimoli necessari per una crescita nella fede? Lo stesso può e deve dirsi se, invece del catechismo, pensiamo a gruppi di giovani o di famiglie: la situazione, in tal caso, diventa ancor più difficoltosa, a meno di non aprirsi a percorsi interparrocchiali o zonali. Nel prossimo triennio ci concentreremo quindi su un tale obiettivo, ormai urgente e improrogabile.


Non basta però salire sul sicomoro, perché dal sicomoro occorre anche scendere.

Se Zaccheo fosse infatti rimasto su quell’albero, avrebbe certo visto il Signore, ma non avrebbe fatto l’esperienza della sua visita. Per salire sul sicomoro è necessario capire come si muove il corso della storia, vale a dire avere gli occhi aperti sulla direzione che il presente ci prospetta, disposti ad ascoltare la verità delle cose anche quando queste non ci piacciono o ci piacciono poco. Per scendere dal sicomoro è invece necessario avere il coraggio della fede, la disponibilità ad avventurarsi su percorsi nuovi, inediti, con tutte le incertezze che questo comporta, nella consapevolezza che non possiamo cedere alla tentazione di cambiare tutto perché tutto resti come prima. Non possiamo, cioè, mettere una toppa nuova su un panno vecchio. Ascoltiamo il monito del Maestro: “Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo porta via qualcosa dal vestito e lo strappo diventa peggiore. Né si versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si spaccano gli otri e il vino si spande e gli otri vanno perduti. Ma si versa vino nuovo in otri nuovi, e così l’uno e gli altri si conservano” (Mt 9,16-17).


Il rischio è quello, per nulla ipotetico, di cedere alla tentazione di restarsene appollaiati sull’albero, perché privi del coraggio di mettere in atto le soluzioni che pure abbiamo intuito, timorosi di rompere equilibri ormai consolidati. Si continuerebbe così in una sorta di accanimento terapeutico, nel tentativo di tenere in vita il più a lungo possibile un organismo malato ormai destinato alla fine. Una prospettiva certo avvilente, ma che ci eviterebbe, nell’immediato, lo sforzo di tentare soluzioni nuove, di entrare in contrasto con ambienti riottosi a muoversi, di pensare percorsi alternativi, di mettersi in gioco in una sfida dall’esito insicuro. Chi può darci il coraggio di scendere dall’albero, di uscire cioè dalle nostre magre certezze, per avviarci sulle strade che lo Spirito vorrà metterci davanti?
Solo se sapremo cogliere, come Zaccheo, lo sguardo d’amore che Gesù posa su di noi, sulla nostra Chiesa, potremo trovare la forza per percorrere vie nuove. Come quel giorno a Gerico, Gesù fissa oggi il suo sguardo su di noi, intimoriti e indifesi come il piccolo uomo sul sicomoro; come Zaccheo, anche noi ci sentiamo infatti piccoli – ancor più piccoli di quel che siamo – di fronte alle richieste del Maestro. Anche noi, però, come l’antico pubblicano, dobbiamo avvertire la forza e l’intensità di quello sguardo e trarre da esso la risolutezza per scendere dall’albero, non perché costretti dalle situazioni o per dovere, ma volentieri, pieni di gioia, disposti – come lui – a mettere da parte vecchie certezze per abbracciare quanto il Signore ci chiede.

 

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21 novembre 2018 3 21 /11 /novembre /2018 03:06

 

 

 

PADRE GINO BURRESI E IL PRESEPE DI SABBIA A P.ZZA SAN PIETRO

 

 

Questa notte ho sognato Padre Gino Burresi che

mi chiedeva aiuto. Dovevo aiutarlo ad

uscire dalle sabbie mobili.

 

Imploro la Chiesa di Papa Francesco a

collaborare, affinché  i  cold case, i casi rimasti

irrisolti,  relativi ad Emanuela Orlandi, a

Mirella Gregori, a Padre Gino Burresi vengano

disseppelliti dalla sabbia.

 

E che  Gesù Bambino non vi rimanga soffocato

ancor prima di nascere.

 

Riccardo Fontana

 

(Tratto da: qumran2.net)

 

Scritto sulla sabbia

 

1 Cosa rispondere?

 

L'adultera. Ancora un Vangelo sulla misericordia di Gesù che contrasta in modo stridente con la durezza di cuore degli scribi e farisei. "Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio, la legge di Mosè dice di lapidarla...". Tremendo tranello. Se dice di lapidarla sarà accusato di durezza di cuore; se dice di non lapidarla, sarà accusato di trasgredire la legge mosaica. E Gesù è chiamato perentoriamente a prendere posizione, non può sottrarvisi. "Tu che ne dici? Mosè ci ha ordinato di lapidarle, tali donne". Essi cercano un motivo per lapidare la donna, ma cercano anche e soprattutto un capo d'accusa per condannare Gesù. "Parlavano così per intrappolarlo e poterlo poi accusare". E' questione di vita o di morte, Gesù lo sa bene. Impossibile sfuggire! Ne va di mezzo, oltre alla vita della donna, anche la sua vita e la misericordia divina. Ma Egli non proferisce parola e si china a scrivere per terra. Misterioso questo scrivere di Gesù; l'unica volta che lo ha fatto.

 

2 Strano giudice e strano libro dei conti...

 

"Ma Gesù chinatosi, si mise a scrivere per terra", sulla sabbia. "L'unico libro dei conti di Gesù è la sabbia. Avete già perso qualcosa nella sabbia? Provate a ritrovarla, la sabbia ingoia tutto, la sabbia cancella tutto, la sabbia dimentica tutto! Non rimane nulla nella sabbia! La donna è davanti a Gesù e lui scrive sulla sabbia per dire che il suo peccato è già cancellato, come tutto ciò che è scritto nella sabbia. Un tribunale ben strano! Il giudice scrive nella sabbia e non rimarrà niente. Basterà il vento della sera e tutto sarà cancellato". (Bruno Ferrero)

 

E poi la risposta, assolutamente sconcertante e fuori dagli schemi dei "dottori" farisei; risposta da vero e insuperabile Maestro qual era: "Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra". Risposta che fa ammutolire tutti e li rimanda alla propria coscienza di peccatori. In silenzio, gli uni dopo gli altri, a partire dai più anziani, se ne vanno, mentre Gesù continua a scrivere per terra. Rimasto solo con la donna Gesù le dice: "Nessuno ti ha condannata? Neppure io ti condanno! Và e non peccare più". Ecco il cuore di Gesù! Quel cuore che ha tanto amato il mondo. Gesù non è venuto per condannare, ma per salvare. Dall'alto della Croce ha detto solo parole di salvezza: "Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno". E ad un altro: "Oggi sarai con me in Paradiso". E il chiamato in questione, anzi, addirittura il canonizzato - l'unico canonizzato direttamente da Gesù- era un ladrone crocefisso per le sue malefatte. Ma sono questi i più salvabili! Chi ha toccato il fondo non ha più nulla da perdere, nulla su cui contare, neanche le proprie buone opere da presentare a Dio per rivendicare la salvezza ("io ho fatto il bene, quindi tu mi devi la salvezza"). L'unica salvezza in cui spera è quella che gli viene da un altro, dal Salvatore. E solo allora lo riconosce come tale; finché conta sui suoi meriti, si considera salvatore di se stesso.

 

3 Chi in Lui si rifugia...

 

L'adultera, la Maddalena, il buon ladrone, hanno contato totalmente su di Lui. Si sono rifugiati totalmente in Lui e non nelle loro buone opere e "chi in Lui si rifugia, non sarà condannato" (salmo 33) anche se avesse fallito tutto; anche se avesse sbandato per un'intera vita, basta che alla fine si rifugi. Un salmo dice "I passi del mio errare tu li hai contati". Errare non solo nel senso di vagabondare, ma nel senso di sbagliare. Siamo tutti più o meno errabondi e non solo nel senso di vagabondi, ma Gesù aspetta solo che ci rifugiamo in Lui, per dire anche a noi "Io non ti condanno; va' e non peccare più". E dobbiamo fare il bene, si capisce che dobbiamo farlo, ma sapendo che il poterlo fare è già grazia sua.

 

Questa stupenda pagina è ancora un invito e una manifestazione della misericordia e ci lascia intravedere gli orizzonti di sconfinato amore del Cuore di Gesù che vuole solo ripetere ad ognuno di noi "Non sono venuto per condannarti, ma per salvarti".

 

 

Tratto da: corriere.it

 

 

Le parole, scritte da Gesù, che nessuno ha ancora letto

 

Astratte, eppure così presenti. Consegnate alle pietre, o disegnate con un dito, sulla sabbia. Fanno parte dei misteri delle Sacre Scritture, e suscitano desiderio

di Roberto Cotroneo

 

Uno degli episodi più misteriosi delle Sacre Scritture è quello narrato nel Vangelo di Giovanni. Quando viene portata dinnanzi a Gesù un’adultera. E gli scribi e i farisei gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». L’episodio è celebre perché Gesù pronuncerà la frase: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra». E tutti ricordano queste parole che sono un insegnamento cardine di tutto il cristianesimo. Ma questa risposta di Gesù ha messo in secondo piano un dettaglio, che dettaglio non è affatto. Alla domanda degli scribi e dei farisei cosa fa Gesù? Secondo il Vangelo di Giovanni «si chinò e si mise a scrivere con il dito per terra. Tuttavia poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: “Chi di voi è senza peccato getti per primo la pietra contro di lei”. E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dagli anziani». Cosa scriveva Gesù? E perché quelle parole non ebbero fortuna? Tra i pochi a porsi un dubbio su questo passo è Jorge Luis Borges. Che riferirà di questo episodio in Altre Inquisizioni aggiungendo: «Gesù fu il più grande dei maestri orali, che una sola volta scrisse alcune parole in terra e nessun uomo le lesse». Le poche parole di Borges mi sono rimaste in mente per anni. E per anni mi sono chiesto come fosse possibile, cosa accadde davvero, e perché Giovanni riferisce l’episodio, ma non svela le misteriose parole che Gesù scrive sulla sabbia. Ma soprattutto per quale misterioso motivo l’episodio di un Gesù che scrive sia perlopiù ignorato dai commentatori, dai biblisti, dai padri della Chiesa e dai teologi.

 

Recentemente sono usciti alcuni saggi sulla Literacy di Gesù. Sapeva leggere e scrivere? O come dice Borges era essenzialmente un maestro orale? Il passo di Giovanni toglierebbe ogni dubbio, e dovrebbe dirci con chiarezza che Gesù era capace di scrivere, e quindi anche di leggere. Eppure resta tutto sospeso. Con una serie di situazioni controverse. A cominciare dall’attribuzione del passo. È nel Vangelo di Giovanni, eppure la pericope non compare nei papiri dell’inizio del Terzo Secolo, i più antichi che abbiamo. Non c’è neppure nel Codices Sinaiticus e nel Codices Vaticanus, che sono del IV Secolo. Il primo codice che riporta la Pericope Adulterae è il Codex Bezae Cantabrigensis. È del V Secolo, e contiene i Vangeli, gli Atti degli Apostoli e la Terza lettera di Giovanni. È conservato all’Università di Cambridge, ed è scritto in latino e in greco onciale, ossia il greco maiuscolo. Qui per la prima volta appare la storia dell’adultera. E la storia di Gesù che scrisse le sue parole sulla sabbia.

 

Ma la pericope dell’adultera, per quanto storicamente attendibile e accettata, anche se inserita nel Vangelo di Giovanni, non è attribuibile a Giovanni. Per lo stile in cui è scritta è probabilmente attribuibile a Luca. E non solo. Secondo Sant’Agostino, il brano sarebbe stato rimosso da alcune copie per non dare l’impressione che Cristo potesse giustificare l’adulterio. Oggi è uno dei passi del Vangelo più celebri. Eppure nessuno si ferma sulle parole scritte. Sulla fortuna o sfortuna di quei segni sulla sabbia.

 

Cosa poteva aver scritto Gesù, ostentando al tempo stesso indifferenza alle domande degli scribi e dei farisei? I pochi commentatori che si sono avventurati in una interpretazione dell’episodio dicono che il gesto di scrivere non fosse altro che un diversivo, un modo per ostentare distacco, per non rispondere subito a una domanda formulata proprio per metterlo in difficoltà. Ma è poco credibile che Gesù Cristo avesse bisogno di questo. E soprattutto che l’unico momento in cui l’insegnamento di Gesù diventa scrittura possa essere dovuto a tutt’altro, a qualcosa che con il testo scritto ha ben poco a che fare. Altri provano a fare un’altra ipotesi affascinante, ma anche altrettanto sfuggente. Si riferiscono al libro di Geremia (17,13) che dice: «quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato il Signore, fonte di acqua viva».

 

Gesù scrive nella polvere i nomi dei peccatori, di coloro che non potranno scagliare la prima pietra contro l’adultera? E quanti nomi avrebbe dovuto scrivere? Le parole scritte, l’imperturbabilità, l’ostinarsi a tenere il dito sulla sabbia forse dice molto di più. E non può essere limitato a un atteggiamento o un riferimento a Geremia. La Literacy di Gesù è certa, ma neppure nella iconografia della pericope ricaviamo qualcosa.

 

Se analizziamo i dipinti più celebri che riprendono la pericope adulterae non ritroviamo Gesù chinato a terra che scrive né in Tiziano, né in Valentine de Boulogne, e neppure in Rembrandt. In tutti questi dipinti Cristo è in piedi, l’adultera è disperata e al centro di tutto c’è l’atteggiamento di calma e di forza di Gesù a smontare le accuse dei farisei con il gesto del perdono. Che Gesù avesse appena finito di scrivere delle misteriose, e poco fortunate parole lo troviamo soltanto in Nicolas Poussin, Gesù Cristo e l’adultera, dipinto nel 1653 e conservato al Louvre. Poussin mette in campo, ai margini del dipinto, alcuni accusatori dell’adultera mentre chinati a terra leggono le parole che aveva appena scritto Gesù. Dal punto di vista artistico è forse il dipinto meno interessante, perché il più fedele e didascalico nel riprodurre la parole del Vangelo, e naturalmente Poussin non è Tiziano e non è neppure Rembrandt. Ma l’atteggiamento dei tre accusatori nel leggere quelle parole è di stupore, incredulità, persino dispetto, per quanto Gesù avesse osato scrivere. Mentre in tutti gli altri c’è la forza del gesto, l’impatto scenico di Gesù, e non certo quella scrittura, quella parola che è forza e mistero.

 

Umberto Eco, nel 1980, racconta nel Nome della Rosa un personaggio, un bibliotecario cieco che si chiama Jorge da Burgos. Per quanto Burgos fosse un centro importantissimo, dove si copiavano manoscritti miniati e si fabbricavano pergamene, è del tutto evidente che Jorge da Burgos non è altro che Jorge Luis Borges, il bibliotecario dei bibliotecari, il dotto dei dotti, cieco come il personaggio del romanzo di Eco. Jorge da Burgos ha un conto aperto con Gesù, ma riguardo a un’altra storia, quella per cui Cristo non rise mai. E proprio per questo il secondo libro della Poetica di Aristotele, che tratta della commedia e del riso, non poteva essere letto da nessuno e andava nascosto perché eretico. Non ci sono mai arrivate le parole che Aristotele scrisse sulla commedia. Sono andate perdute, come è andata perduta la quasi totalità della tradizione letteraria classica.

 

Di migliaia di autori importanti non abbiamo altro che qualche frammento, o dei riferimenti di autori posteriori che erano riusciti a leggere e poi citare testi che non ritroveremo mai. Jorge Luis Borges non nascondeva vecchi codici, ma svelava misteri, portava a nuova vita parole che sembravano perdute. Cristo forse non rise mai, ma certo scrisse parole di cui non sappiamo nulla. Le scrisse sulla sabbia. E svanirono in poco tempo. Nessuno si è curato di quelle parole, non lessero niente i farisei e gli scribi, che dopo la risposta di Gesù andarono via, non lesse l’anonimo estensore di questa storia, finita in un manoscritto tardo, copia di un testo greco andato perduto di cui ci parla Giustino di Nablus e che veniva da Smirne. Il Codex ha avuto una storia travagliata, passando dalla biblioteca del monastero di Sant’Ireneo a Lione fino a Cambridge, dopo essere passato tra le mani di un successore di Calvino: Teodoro di Beza. Ma nei primi secoli sono molte le fonti che raccontano di un incontro tra Gesù e una peccatrice, un’adultera. Quasi nessuno invece ha voglia di aggiungere qualcosa riguardo a quelle parole e a quella scrittura. Forse tutto questo non potrà che diventare un romanzo, dove a nascondere quelle parole è come sempre un bibliotecario, come Jorge Luis Borges, come Jorge da Burgos, qualcuno che custodisce il segreto dei segreti, le parole scritte da Gesù Cristo. Le parole che nessuno lesse e che sogniamo un giorno di poter ritrovare.

 

 

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  • : RIABILITAZIONE POST MORTEM DI PADRE GINO BURRESI
  • : Riabilitazione post mortem di Padre Gino Burresi Firma la Petizione https://petizionepubblica.it/pview.aspx?pi=IT85976 "Sono dentro, donna o uomo che vive li nel seno di questa chiesa. Da me amata, desiderata e capita... Sono dentro. Mi manca aria, Aspetto l'alba, Vedo tramonto. La chiesa dei cardinali madri per gioielli, matrigne per l'amore. Ho inciampato e la chiesa non mi sta raccogliendo. Solitudine a me dona, a lei che avevo chiesto Maternità. E l'anima mia, Povera, Riconosce lo sbaglio di aver scelto il dentro e, Vorrei uscire ma dentro dovrò stare, per la madre che non accetta, Il bene del vero che ho scoperto per l'anima mia. Chiesa, Antica e poco nuova, Barca in alto mare, Getta le reti Su chi ti chiede maternità. Madre o matrigna, per me oggi barca in alto mare che teme solo di Affondare! Matrigna." Commento n°1 inviato da Giò il 2/04/2011 alle 14h27sul post: http://nelsegnodizarri.over-blog.org/article-la-chiesa-di-oggi-ci-e-madre-o-matrigna-67251291
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