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2 dicembre 2018 7 02 /12 /dicembre /2018 14:40

 

 

TEMPO DI AVVENTO: LA PROCESSIONE INTROITALE

 

Tratto da: qumran2.net

 

Il grande burrone

 

Un uomo sempre scontento di sé e degli altri continuava a brontolare con Dio perché diceva:

"Ma chi l'ha detto che ognuno deve portare la sua croce?

Possibile che non esista un mezzo per evitarla?

Sono veramente stufo dei miei pesi quotidiani!"

Il Buon Dio gli rispose con un sogno.

Vide che la vita degli uomini sulla Terra era una sterminata processione.

Ognuno camminava con la sua croce sulle spalle.

Lentamente, ma inesorabilmente, un passo dopo l'altro.

Anche lui era nell'interminabile corteo e avanzava a fatica con la sua croce personale.

Dopo un po' si accorse che la sua croce era troppo lunga: per questo faceva fatica ad avanzare.

"Sarebbe sufficiente accorciarla un po' e tribolerei molto meno", si disse, e con un taglio deciso accorciò la sua croce d'un bel pezzo.

Quando ripartì si accorse che ora poteva camminare molto più speditamente e senza tanta fatica giunse a quella che sembrava la meta della processione.

Era un burrone: una larga ferita nel terreno, oltre la quale però cominciava la "terra della felicità eterna".

Era una visione incantevole quella che si vedeva dall'altra parte del burrone.

Ma non c'erano ponti, né passerelle per attraversare.

Eppure gli uomini passavano con facilità.

Ognuno si toglieva la croce dalle spalle, l'appoggiava sui bordi del burrone e poi ci passava sopra.

Le croci sembravano fatte su misura:

congiungevano esattamente i due margini del precipizio.

Passavano tutti, ma non lui: aveva accorciato la sua croce e ora era troppo corta e non arrivava dall'altra parte del baratro.

Si mise a piangere e a disperarsi: "Ah, se l'avessi saputo...".

La croce è l'unica via di salvezza per gli uomini, l'unico ponte che conduce alla vita eterna.

 

Bruno Ferrero   Marco Frisina - Puer Natus Est Nobis - Di Salvatore Colì - YouTube

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2 dicembre 2018 7 02 /12 /dicembre /2018 10:47

 

 

LA STELLA COMETA SULL'OPERA SANTUARIO DI BIRGI

 

 

Tratto da: qumran2.net

 

Dov'è finita la stella cometa?

 

Quando i Re Magi lasciarono Betlemme, salutarono cortesemente Giuseppe e Maria, baciarono il piccolo Gesù, fecero una carezza al bue e all'asino. Poi, con un sospiro, salirono sulle loro magnifiche cavalcature e ripartirono.

«La nostra missione è compiuta!», disse Melchiorre, facendo tintinnare i finimenti del suo cammello. «Torniamo a casa!», esclamò Gaspare, tirando le briglie del suo cavallo bianco. «Guardate! La stella continua a guidarci», annunciò Baldassarre.

La stella cometa dal cielo sembrò ammiccare e si avviò verso Oriente. La corte dei Magi si avviò serpeggiando attraverso il deserto di Giudea. La stella li guidava e i Magi procedevano tranquilli e sicuri. Era una stella così grande e luminosa che anche di giorno era perfettamente visibile. Così, in pochi giorni, i Magi giunsero in vista del Monte delle Vittorie, dove si erano trovati e dove le loro strade si dividevano.

Ma proprio quella notte cercarono invano la stella in cielo. Era scomparsa. «La nostra stella non c'è più», si lamentò Melchiorre. «Non l'abbiamo nemmeno salutata». C'era una sfumatura di pianto nella sua voce. «Pazienza!», ribatte Gaspare, che aveva uno spirito pratico. «Adesso possiamo cavarcela da soli. Chiederemo indicazioni ai pastori e ai carovanieri di passaggio».

Baldassarre scrutava il cielo ansiosamente; sperava di rivedere la sua stella. Il profondo e immenso cielo di velluto blu era un trionfo di stelle grandi e piccole, ma la cometa dalla inconfondibile luce dorata non c'era proprio più. «Dove sarà andata?», domandò, deluso. Nessuno rispose. In silenzio, ripresero al marcia verso Oriente.

La silenziosa carovana si trovò presto ad un incrocio di piste. Qual era quella giusta? Videro un gregge sparso sul fianco della collina e cercarono il pastore. Era un giovane con gli occhi gentili nel volto coperto dalla barba nera. Il giovane pastore si avvicinò e senza esitare indicò ai Magi la pista da seguire, poi con semplicità offrì a tutti latte e formaggio. In quel momento, sulla sua fronte apparve una piccola inconfondibile luce dorata.

I Magi ripartirono pensierosi. Dopo un po', incontrarono un villaggio. Sulla soglia di una piccola casa una donna cullava teneramente il suo bambino. Baldassarre vide sulla sua fronte, sotto il velo, una luce dorata e sorrise. Cominciava a capire.

Più avanti, ai margini della strada, si imbatterono in un carovaniere che si affannava intorno ad uno dei suoi dromedari che era caduto e aveva disperso il carico all'intorno. Un passante si era fermato e lo aiutava a rimettere in piedi la povera bestia. Baldassarre vide chiaramente una piccola luce dorata brillare sulla fronte del compassionevole passante.

«Adesso so dov'è finita la nostra stella!», esclamò Baldassarre in tono acceso. «È esplosa e i frammenti si sono posati ovunque c'è un cuore buono e generoso!». Melchiorre approvò: «La nostra stella continua a segnare la strada di Betlemme e a portare il messaggio del Santo Bambino: ciò che conta è l'amore». «I gesti concreti dell'amore e della bontà insieme formano la nuova stella cometa», concluse Gaspare. E sorrise perché sulla fronte dei suoi compagni d'avventura era comparsa una piccola ma inconfondibile luce dorata.

Ci sono uomini e donne che conservano in sé un frammento di stella cometa. Si chiamano cristiani.

 

Bruno Ferrero  Neffa - Dove sei - Testo - YouTube

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2 dicembre 2018 7 02 /12 /dicembre /2018 10:31

 

PRIMA DI AVVENTO: UN LUMINO AL POSTO DI  UNA CANDELA

 

Tratto da: qumran2.net

 

Il filo di cotone

 

C'era una volta un filo di cotone che si sentiva inutile. «Sono troppo debole per fare una corda» si lamentava. «E sono troppo corto per fare una maglietta. Sono troppo sgraziato per un Aquilone e non servo neppure per un ricamo da quattro soldi. Sono scolorito e ho le doppie punte... Ah, se fossi un filo d'oro, ornerei una stola, starei sulle spalle di un prelato! Non servo proprio a niente. Sono un fallito! Nessuno ha bisogno di me. Non piaccio a nessuno, neanche a me stesso!».
Si raggomitolava sulla sua poltrona, ascoltava musica triste e se ne stava sempre solo. Lo udì un giorno un mucchietto di cera e gli disse: «Non ti abbattere in questo modo, piccolo filo di cotone. Ho un'idea: facciamo qualcosa noi due, insieme! Certo non possiamo diventare un cero da altare o da salotto: tu sei troppo corto e io sono una quantità troppo scarsa. Possiamo diventare un lumino, e donare un po' di calore e un po' di luce. È meglio illuminare e scaldare un po' piuttosto che stare nel buio a brontolare».
Il filo di cotone accettò di buon grado. Unito alla cera, divenne un lumino, brillò nell'oscurità ed emanò calore. E fu felice.

 

Bruno Ferrero  Emma Marrone - Inutile Canzone (Testo) - YouTube

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2 dicembre 2018 7 02 /12 /dicembre /2018 06:56

 

 

LA PRIMA DOMENICA D'AVVENTO AL SANTUARIO DI BIRGI

 

 

Trascorrerò in spirito la prima domenica di

Avvento presso la Famiglia del Cuore Immacolato

di Maria di Birgi (Marsala - TP).

 

L'altra notte ho sognato Padre Gino Burresi che

mi diceva che la Famiglia del Cuore Immacolato di

Maria mi vuole bene.

 

Non l'avesse mai detto: ieri, per caso, mi sono

affacciato sulla pagina facebook della Famiglia del

Cuore Immacolato di Maria e ho notato che mi

hanno interdetto anche lì l'accesso alla loro

pagina.

 

Quindi per ben tre volte (infatti non c'è

due senza tre - si dice -), la prima volta sono

stato escluso dalla pagina facebook del Santuario

di Montignoso (Gambassi Terme), la seconda

hanno demolito la pagina facebook di padre Enzo

Vitale, rettore dell'Opera Santuario Nostra Signora

di Fatima di Birgi (Marsala - TP), solo perché

aveva accolto 411 tra testimonianze ed articoli

riguardanti il Servo del Cuore Immacolato di Maria

padre Gino Burresi, ai fini di una sua riabilitazione

da parte di Papa Francesco e del Papa emerito

Benedetto XVI, così prendo due piccioni con una

fava, la terza escludendomi dalla pagina facebook

della Famiglia del Cuore Immacolato di Maria.

 

A questo punto cosa devo pensare?

 

Che chi mi esclude mi vuole bene?

 

Sì, voglio pensarla così.

 

Anche quando io e mia sorella ci eravamo esclusi

ognuno dalla vita dell'altro, quando poi ci siamo

rappacificati, lo abbiamo fatto perché ci vogliamo

bene.

 

Vorrei fare una considerazione sull'articolo

precedente intitolato "La Parola di Dio si fa

carne in ogni nuova vita".

 

Guardate che io ci credo davvero e non è uno

spot pubblicitario.

 

Per capirmi vi dovete mettere nei miei panni di

uomo sterile che non è stato in grado di

procreare, pur avendo adottato un bambino dal

Brasile.

 

Il mio Gesù mi nasce ogni anno, è il figlio che mi

è mancato, è la Parola di Dio che si fa carne in me.

 

Che mi abbiano escluso dalla pagina facebook

della Famiglia del Cuore Immacolato di Maria a

causa della mia sterilità?

 

Può essere.

 

Perché certo non sono normale, non sono

presentabile.

 

Se lo venisse a sapere Papa Francesco, sai le

mazzate!!!

 

E poi con tutte le mie eresie, potrei traviare

qualcuno.

 

Se faccio tanta paura non visitate più i miei blog.

 

Buttatevi su quelli sicuri, con le cinghie sempre

allacciate.

 

Io sono un paracadutista della folgore divina.

 

 

Riccardo Fontana

 

Tratto da: ilgiornale.it

 

"Ero un parà della Folgore, in Somalia sono stato folgorato"

È il rettore del romitaggio del Getsemani: "Mi ero arruolato per far soldi Anche oggi vivo in mezzo ai contrasti ma non più come soldato"

 
 
 
 

Il telefono squilla a vuoto all'ora fissata per l'intervista. Può sembrare strano, in un luogo consacrato alla preghiera come è il podere del Getsemani a Gerusalemme, che il responsabile del Romitaggio, fra Diego Dalla Gassa, non risponda. Non lo è, perché qui accade sempre qualcosa di imprevisto. Alla fine, eccolo. Quarantacinque anni compiuti a settembre, fra Diego ha iniziato il percorso per diventare francescano a ventitré: «Conosco molti che hanno avuto rivelazioni, sogni.

 

Non sono tra costoro. Nella mia vita ci sono state persone, incontri». Prima era stato soldato a Mogadiscio, in Somalia, con la missione Restore Hope, partito nell'anno di leva «perché attirato dai soldi che si potevano guadagnare». Ma qui siamo già molto avanti nella storia.[

Come e dove tutto è iniziato?

 
 

«Sono il quarto di cinque figli di una semplice famiglia veneta. Quando avevo tre anni, il mio babbo è stato colpito da ictus che lo ha paralizzato al cinquanta per cento. È come se il tandem della nostra famiglia avesse forato la ruota. Mia madre dovette cercare un lavoro e noi ci appoggiavamo un po' come si poteva da parenti e vicini. Qualche strada si aprì grazie a persone generose, altre le ho aperte io. Sono cresciuto come un discolo, nonostante le raccomandazioni e la fatica che vedevo nel volto di mia madre».

Crescendo, durante l'adolescenza, è cambiato qualcosa?

«In chiesa andavo e portavo i miei amici, ma con il palloncino per fare le pernacchie, così il parroco ci ha buttato fuori più volte. Ero un ragazzotto di piazza, un uomo che non deve chiedere mai, chiamavo chi frequentava la chiesa magna-dormi o basa-banchi. Capelli lunghi, discoteche, fondotinta, la matita per fare colpo sulle ragazze. Scelsi di fare Taekwondo, un'arte marziale coreana. Entrai nella squadra agonistica veneta. Poi arrivò il tempo del militare».

Com'è finito nei paracadutisti?

«Feci domanda nel corpo dei carabinieri, ma mi scartarono. Allora scelsi l'affascinante basco rosso della Folgore: i parà. Andai a Pisa e a Livorno. Era il periodo in cui il contingente italiano era coinvolto nell'operazione Restore Hope in Somalia».

Così siamo arrivati a Mogadiscio. Poi il cambio di vita drastico, almeno in apparenza. Come accade che un militare, paracadutista, che spernacchiava i parrocchiani in chiesa, arrivi a essere frate, e in un luogo dedicato al silenzio e alla preghiera come il Getsemani?

«Sono passato dalla cintura nera di Taekwondo al cordone bianco sul saio da frate».

Appunto, una rivoluzione totale.

«Il passaggio dall'esterno può sembrare drammatico ma se noi pensiamo che Dio parla quando le cose stanno bene in ordine... spesso è il contrario. Dio mi ha parlato in una situazione di oscurità, di aggressività, durante la guerra in Somalia. L'anno di leva e il servizio militare per me sono stati importanti. Ero andato per interesse, per soldi, e mi sono trovato a guardare il cielo di Mogadiscio davanti a fatti che mi raccontavano il limite umano, della vita, della giustizia. Tutto questo mi ha condotto a una serie di domande».

E quali sono queste domande?

«Una, essenzialmente. Ci sarà qualcuno in cui posso investire tempo, affetto, intelligenza, fisicità e che non mi deluda? Tutto questo è rimasto lì come un grande interrogativo a cui dare risposta. Tutte le grandi domande hanno bisogno di grandi risposte e richiedono tempo».

È successo qualcosa di particolare in Somalia che l'ha smossa dentro?

«No. Anzi, mi mettevo anche a prendere il sole, però ero già incuriosito dal Vangelo. Ricordo che avevo iniziato a leggere Matteo, il primo evangelista, e mi aveva colpito la regola d'oro: Fai all'altro ciò che vorresti fosse fatto a te».

Ha deciso di mettere in pratica la regola aurea?

«Sì, con un ragazzo che di primo acchito mi era antipatico perché lo vedevo sorridere, vestito bene. Sono sceso al ristoro e c'era lui, solo in un angolo. Non mi piacerebbe fosse fatto a me, ho pensato. Allora gli ho chiesto se potevo presentarmi. L'ho conosciuto ed era simpaticissimo. Così ho pensato: è proprio vero il Vangelo».

Ma questo Vangelo da dove arrivava? Gliel'hanno dato a Mogadiscio?

«L'avevo portato da casa, come forma di protezione, che in realtà nascondeva un desiderio ancestrale di approfondire. Avevo 19 anni. Questo mi portò a volere cambiare e a parlare sotto il cielo di Mogadiscio a un mio compaesano che era scout. Quando sono tornato a casa, sono entrato a far parte di quelli che io chiamavo mangiaparticole, baciabanchi, bigotti, cioè un gruppo scout, da cui nacque una pratica cristiana religiosa che tentava di mettere in pratica quel Vangelo. Rimaneva quella domanda».

Ragazzotto di diciannove anni, cintura nera, paracadutista. Era anche fidanzato?

«Sì, avevo il sogno di diventare marito e padre di cinque o sei marmocchi e trascinai dentro gli scout anche la ragazza. Grazie alla nostra esperienza di militari, mia e del mio commilitone di Mogadiscio, il nostro gruppo decise di andare in Albania per partecipare a Volo d'aquila dell'Azione cattolica. Lì ebbi un altro contatto con un paese povero ma ero con un'altra veste».

Che cosa le ha lasciato l'esperienza in Albania?

«Ho visto il segno della dittatura comunista, che aveva intaccato lo spirito delle persone. Ho sperimentato il contatto con un altro mondo, un altro modo di essere povero rispetto a quello che avevo visto in Somalia, e questo mi ha portato a riflettere. Di ritorno dall'Albania, un mio amico mi disse: Devo andare ad Assisi, vieni con me. Era in crisi esistenziale: lui adesso è sposato e io sono frate».

Assisi è stato il luogo della chiamata alla vita in saio, sembra di capire...

«Partimmo il primo gennaio. Dopo due ore di sonno gli ho chiesto: ma che cosa c'è ad Assisi che ne parli come l'America? In macchina c'era un libro: Visitiamo Assisi con lo spirito di san Francesco. Ho chiesto al mio amico: ma san Francesco non è in America?».

Da San Francisco a san Francesco il passo è stato breve?

«Ad Assisi la guida, scritta da un frate, consigliava di partire dalla Porziuncola, culla dell'ordine: Fermatevi e chiedete il dono della presenza di Francesco per guidarvi nei luoghi santi. Quel giorno mi sono messo in Porziuncola dalle 10.30 alle 11.30, per la prima volta a pregare. In Francesco trovai la risposta a questa mia grande domanda. Rimasi meravigliato di come lui aveva vissuto le cose che io avevo vissuto».

Quali esperienze di vita comune ha avvertito di avere con san Francesco?

«Lui era un ragazzo di piazza, grande sognatore, che vuole diventare cavaliere e va in guerra. È come se si fosse avvicinato e mi avesse detto: So che cosa vuole dire avere paura, conosco la delusione e anche la via. Il mio amico al ritorno mi provocava: Ti vedrei bene frate. Io gli rispondevo: Ma sei scemo?. Poi sono entrato tra i frati della Provincia del Veneto».

Adesso è a Gerusalemme, al Getsemani, il luogo frequentato da Gesù con gli Apostoli, dove lui si ritirò in preghiera prima della passione, mentre Pietro, Giovanni e Giacomo dormivano...

«Il sogno dell'altra cultura, della diversità che non è l'Italia, mi era rimasto dentro, ma è tornato solo dopo la formazione, dopo essere stato ordinato diacono e sacerdote. Dopo, il Signore si è ripresentato con il sogno di aiutare l'altro e con il desiderio di venire in Terra Santa. Presentai la domanda, affrontai non poche resistenze, eccomi qui. Mi chiedevano: Come mai, non ti basta quel che stai vivendo qui con noi?».

Lei che cosa ha risposto? Perché non le bastava la vita che aveva?

«Non volevo avere tenuto il mio sogno nel cassetto. Mi diedero il permesso di verificare e tre anni di tempo. Era il 3 ottobre 2010, il Transito di san Francesco, e mi sono sentito accompagnato. Dopo un primo anno di conoscenza dei luoghi santi e di studio, ho avuto l'opportunità di venire al Romitaggio per mettere le mani in pasta e conoscere la Terra Santa da dentro. Io dissi: Che bello, vado in luogo dove si prega. E padre Pizzaballa, attuale arcivescovo e amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, che allora era il Custode, mi rispose: È anche un luogo dove si lavora molto. Dopo due anni avevo già maturato che era il posto in cui il Signore mi chiamava. È un grande dono spendere la vita nel luogo dove il Signore è vissuto. Così mi sono trovato dentro una realtà in cui ci sono contraddizioni e contese, ma in vesti diverse: non più come soldato ma come servo di Cristo».

Pensa che l'anno di leva sarebbe utile? Lo proporrebbe per tutti?

«La mia esperienza non è il paradigma per tutti, perché ad alcuni il militare serve e ad altri no. Tutta la vita può diventare un insegnamento, non solo il militare. Ho sentito però le voci di chi sostiene che i militari devono essere professionisti. È vero, ma l'anno di leva può essere positivo per crescere nella maturità umana e sociale, perché il rischio dei nostri ragazzi è protrarre l'adolescenza fino a trent'anni in casa. Uscire dalla propria casa, instaurare relazioni nuove, obbedire a qualcuno, porta la persona a capire che la vita è fatta così, che non sempre tutto quello che vuoi fare va bene. È giusto accogliere chi ha fatto esperienza prima di te. Come diceva Bobbio, se sono diventato grande è perché mi sono appoggiato sulle spalle dei giganti. La nostra sapienza sta nell'affidarsi a chi ha camminato prima di noi: si chiama tradizione».

Come vive ciò che accade in Israele e le difficoltà di convivenza tra popoli, culture e credo diversi in Terra Santa?

«Noi francescani siamo chiamati a essere una mediazione, cioè a guardare non solo chi ci piace, non solo i cristiani ma l'uomo in sé. Siamo chiamati a essere una mediazione per l'umanità che ha amato Gesù. Lui è il nostro Maestro. Se istintivamente ci viene da stare dalla parte del povero, perché è afflitto, vive l'ingiustizia, dall'altra siamo chiamati a stare di fronte a chi impone delle regole. Stiamo con tutti ma come mediazione, come segno che cerca di guardare oltre l'atto in sé».

Com'è la vita del Romitaggio e che effetto fa alle persone che vengono qui in ritiro, in preghiera o anche solo in visita?

«È uno dei luoghi più santi sulla faccia della terra per la cristianità. È il luogo dove il Signore ha detto il suo sì al Padre e all'umanità: Non sia fatta la mia volontà ma la tua, restate qui e vegliate. Il senso della nostra missione è restare qui e permettere che il desiderio di Gesù sia accontentato e sfamato. Così sono al servizio di questo podere chiamato Getsemani in cui accogliamo le persone che vogliono vivere un momento per stare vicini al Signore, che può durare un'ora o una settimana».

Non vi manca il contatto con le persone che vivono una quotidianità per così dire ordinaria in questi luoghi?

«Il contatto con la realtà non è così evidente perché noi siamo fermi e il mondo viene qui: vengono da tutto il pianeta, ogni tipo di persona. Abbiamo anche amici musulmani che arrivano qui, magari per una toccata e fuga, e trovano pace. Abbiamo accolto anche israeliani in ricerca. Ci sono altri luoghi santi in cui la vita è un po' differente: come Betlemme, Nazaret e Giaffa, o in Siria Aleppo o Damasco, dove si toccano nella carne il conflitto e il contatto con la realtà di questa terra. Ma percepiamo che la nostra missione è pregare e raccontare la passione di Gesù che qui ha vissuto. Si compie una frase che Francesco amava dire: Vorrei percorrere le via del mondo piangendo la Passione del mio Signore. Qui accade il contrario: noi siamo fermi nel luogo della Passione e il mondo percorre questo luogo».

Si sente approdato in un luogo definitivo?

«Il luogo definitivo è la Terra Santa».

Le capita di ripensare con nostalgia al passato e alla Somalia?

«Quando sei innamorato, l'attrazione è più forte e ti fa lasciare altre cose. Sei trascinato, è l'amore che ti muove. Ora vado perché devo finire di impastare il cemento».

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1 dicembre 2018 6 01 /12 /dicembre /2018 23:20

 

 

LA PAROLA DI DIO SI FA CARNE IN OGNI NUOVA VITA

 

(Tratto da: operabirgi.it)

LE ATTIVITÀ DEL MOVIMENTO PER LA VITA DI MARSALA

 

http://www.seonweb.eu/swManager/sw_files/news/Locandina-MPV-Marsala_865.jpg.jpeg
 
 
17/10/2017

di Antonella Messina
Presidente Movimento per la Vita Marsala

A proposito di numeri…
Tutte le volte che debbo parlare del Movimento per la Vita le prime domande che mi fanno riguardano numeri: …quante mamme aiutate? …quanti generi alimentari per neonati distribuite? …quanti pannolini, seggiolini, e materiale per la prima infanzia avete assegnato?
Queste sono le domande che porto dalla mia esperienza – di volontaria prima e di presidente poi – del Movimento per la Vita di Marsala .

I numeri a volte sono importanti, a maggior ragione nell’epoca dei “mi piace” ma, per quanto ci riguarda, più alta è la statistica in questione più alto diventa il fallimento di ciò che noi vorremmo portare avanti. E tutto questo perché la nostra attività tratta un Bene dal valore infinito. Tutti i numeri, quindi, diventano relativi, e per questo motivo non risponderò ulteriormente alle domande sopracitate, perché credo che basterebbe una sola vita salvata a dare un senso a tutta l’attività intera del Movimento per la Vita (MpV).

Il MpV di Marsala, nel suo piccolo, prova a dare voce a chi non ha voce, perché l’uomo è sempre uomo e se è piccolo, debole, incapace di parlare e di difendersi, a rischio di morte, allora è anche un povero, è il più povero tra i poveri.

Cerchiamo di raggiungere i nostri obiettivi promuovendo iniziative a livello culturale, sociale e politico volte alla difesa della dignità della vita di ogni essere umano.
Ciò è possibile operando concretamente, incontrando donne in difficoltà, talvolta disperate, spesso insicure, alle prese con una gravidanza difficile o indesiderata, oltreché sostenere le giovani madri prive di mezzi o sprovviste delle capacità necessarie a fornire le cure al figlio, al fine di prevenire il ricorso all'aborto.

Quest’anno abbiamo deciso di dare maggior rilievo alla divulgazione della nostra attività nell’ambito scolastico, attraverso la preparazione di spettacoli a tema (ad esempio il 10 e l’11 novembre con lo spettacolo “Shalom” presso il teatro E. Sollima di Marsala), con la divulgazione di locandine e manifesti che mettono fra l’altro a disposizione (a proposito di numeri!) il nostro numero telefonico 24h/24h per qualsiasi informazione utile all’accoglienza della vita o richiesta di aiuto in tal senso.

Insieme ai nostri volontari siamo alla continua ricerca di personale specializzato (psicologi, medici generici, pediatri, ginecologi, ostetriche, assistenti sociali ecc) per rafforzare sempre meglio la rete di contatti che ci possano aiutare nella nostre attività.
Chi fosse interessato anche alla “semplice” ma bellissima attività di volontario può venire a trovarci tutti i giovedì dalle 16.00 alle 18.00 nella nostra sede di Marsala Via della Gioventù 65 oppure contattarci al numero 3774017498.
Mina - Quanno nascette ninno - Mina50 - YouTube

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1 dicembre 2018 6 01 /12 /dicembre /2018 22:15

 

 

 

 

LA MADONNA DI FATIMA ENTRA NELLE SCUOLE SICILIANE

 

(Tratto da: operabirgi.it)

 

Scuole in Visita

L'Opera Santuario Nostra Signora di Fatima offre ai bambini delle scuole dell'infanzia, primaria e secondaria di primo grado, accompagnati dai propri insegnanti, di trascorrere qualche ora insieme con Maria nella conoscenza del Messaggio di Fatima e della vita dei Beati Pastorelli di Fatima, Francesco e Giacinta Marto, con giochi, animazione e preghiera.
Tale possibilità è concessa in particolare durante il Mese di Maggio, tradizionalmente dedicato alla Madre di Dio: ciò non esclude altre giornate durante l'anno.
I docenti che avessero intenzione di accompagnare i propri alunni per trascorrere qualche ora presso il Santuario, possono contattare il responsabile del Santuario per concordare la visita e ricevere l'adeguata accoglienza.
  Video in cui gli adolescenti dell'Opera di Birgi (il gruppo MEN ALIVE ...

Opera Santuario Nostra...
YouTube - 2 giu 2015
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1 dicembre 2018 6 01 /12 /dicembre /2018 16:31

 

UNA MADRE SI CONSACRA ALLA MADRE DI TUTTE LE MADRI

 

Tratto da: operabirgi.it

 

COME POTEVO RINUNCIARE A UN TESORO DI GIOIA E GRAZIA?

 

 
 
 

di Tiziana Fortunato


Sono una donna sposata, mamma di due splendidi bambini.
Da anni frequento il Santuario di Birgi e la Famiglia del Cuore Immacolato di Maria (FCIM).
Da un paio di anni è maturato in me il desiderio di consacrarmi alla Madonna. Questa scelta è stata una scelta d’amore, verso quella “figura materna” che si è resa viva e presente nella mia vita, in varie situazioni: la Vergine Maria. E così, come una persona innamorata desidera partecipare al progetto di vita dell’amato, così io ho desiderato aderire ad un progetto di vita che avesse come Unico e Vero Modello, la Madonna. Tutto ciò è avvenuto gradualmente, dopo aver chiesto a Dio che desideravo ardentemente che convertisse il mio cuore.
La consacrazione al Cuore Immacolato di Maria divenne, allora, la strada prediletta per realizzare il mio desiderio. Essa orienta la mia esistenza verso i valori autentici del mio essere cristiana e si concretizza nell’impegno di attuarli con atteggiamenti interiori ed esteriori in gra
do di portare il messaggio di amore che Cristo ha per ciascun uomo. Durante il mio percorso verso la consacrazione è stato fondamentale avere accanto e respirare la dolcezza e la delicatezza dei sacerdoti del Santuario di Birgi. Loro mi hanno illustrato gli adempimenti e le responsabilità di tale scelta. Grazie a loro, alle suore e al confronto con alcuni laici, ho fatto esperienza che la consacrazione non è solo un fatto devozionale, ma richiede un impegno costante nel seguire gli incontri formativi, di condivisione con la Famiglia del Cuore Immacolato di Maria e la partecipazione ai ritiri spirituali organizzati dal movimento stesso. Inoltre consacrarsi significa anche regolare impegno di preghiera. Tali “adempimenti” possono apparire gravosi per chi non li vive, invece, posso affermare, che ognuno di questi momenti sono occasione di Grazia in cui la mia anima si nutre di Bene e a cui mi riesce difficile rinunciare. La formazione, in particolare, mi ha arricchito tantissimo... Mi ha dato occasione di conoscere e imparare a vivere la Parola di Dio nella quotidianità e mi ha fornito tanti spunti di riflessione su aspetti della mia vita familiare ma anche della mia vita sociale.
La condivisione durante i “porta-teco” (cene in cui ognuno porta quanto prepara a casa e lo condivide) e il confronto con gli altri “affidandi” (coloro che fanno il percorso in vista dell’atto di affidamento al Cuore Immacolato di Maria) sono stati vera occasione di Gioia in un ambiente in cui si respira vera fraternità.
Chi frequenta questo luogo di pace sembra ricevere benedizione ed entusiasmo nell’incontro con l'Altro, con il nostro Prossimo. E tutto ciò è fuori dalle comuni logiche opportunistiche del mondo, che ti portano a chiuderti a riccio in te stesso facendo fare esperienza di solitudine pur avendo tante persone intorno.
La Famiglia del Cuore Immacolato di Maria, nell’unione tra laici e religiosi, è il “luogo” dove si vuole dar valore alla Persona umana nell’ottica dello sguardo del Padre Celeste su ciascuna anima.
Spesso mi viene detto: «Come hai fatto a prenderti un tale impegno?»… e, mentre tanti mi rivolgono questa domanda, io, con un’inspiegabile pace del cuore, penso: «come avrei potuto rinunciare a tale arricchimento, a tanta Grazia e ad una tale Gioia?»
Consacrarsi non è diventare perfetti ma imparare a riconoscere i propri limiti, a superare errori, a riconoscere l'Opera di Dio nelle varie vicissitudini della nostra vita, donarsi verso gli altri con una maggiore umanità.
Sicuramente tutto quanto ricevuto deve riflettersi nelle nostre relazioni familiari e sociali altrimenti si rischia di essere poco credibili. Non nascondo che a volte è faticoso ma il provare a seguire quella via tracciata da Maria e dal Suo Amato Figlio è il dovere di ogni persona che si definisce cristiano. Noi tutti naturalmente siamo stati creati per costruire legami, conservare rapporti sani, sanare rotture, rifiutare mode che offendono il significato della Vera bellezza. Tutto ciò, nel consacrato, diventa un impegno serio che va testimoniato con la propria vita.
Per far questo bisogna attingere forza dalla preghiera e soprattutto tendere la mano alla Madonna che è sempre pronta e disponibile a guidarci.
È spontaneo pensare che un tale impegno sottragga tempo allo svago, alla famiglia, eppure oggi sperimento che la mia vita è vissuta in pienezza, nel costante desiderio di fare il Bene: il tempo che da Dio ogni giorno mi viene donato acquista valore ed è vissuto con entusiasmo. Auguro a tutti di poter fare questa meravigliosa esperienza.

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1 dicembre 2018 6 01 /12 /dicembre /2018 09:24

 

 

IL DONO DA CHIEDERE A PAPA' NATALE: LA LIBERTA'

 

 

La preghiera dei bambini

Charles Péguy, Il mistero dei santi innocenti


Nulla è bello come un bambino che s’addormenti nel dire la preghiera, dice Dio.
Vi dico, nulla è così bello al mondo.
E dire che ne ho viste di bellezze, nel mondo.
E me ne intendo. La mia creazione trabocca di bellezze.
La mia creazione trabocca di meraviglie.
Ce n’è tante da non sapere dove metterle.
Ho visto milioni e milioni d’astri ruotare sotto i miei piedi come le sabbie del mare.
Ho visto giornate ardenti come fiamme.
Giorni d’estate, di giugno, luglio, agosto.
Ho visto sere d’inverno distese come un mantello.
Ho visto sere d’estate calme e dolci come una pioggia di paradiso
Tutte disseminate di stelle.
Ho visto queste colline della Mosa e queste chiese che sono le mie case.
E Parigi e Reims e Rouen e cattedrali che sono i miei palazzi, i miei castelli.
Così belli che li conserverò nel cielo.
Ho visto la capitale del regno a Roma capitale della cristianità.
Ho sentito cantare la messa e i vespri trionfali.
Ho visto queste pianure e queste valli di Francia.
Che sono la cosa più bella.
Ho visto il mare profondo, e la profonda foresta, e il cuore profondo dell’uomo.
Ho visto cuori divorati d’amore
Durante l’intera vita
Estatici di carità.
Che bruciavano come fiamme:
Ho visto martiri così animati di fede
Saldi come roccia sul cavalletto
Sotto i denti di ferro.
(Come un soldato che resista da solo per tutta la vita
Per fede
Per il suo generale (apparentemente) assente.
Ho visto martiri in fiamme come torce
Prepararsi così le palme sempre verdi.
Ho visto stillare sotto gli uncini di ferro
Gocce di sangue splendenti come diamanti.
Ho visto stillare lacrime d’amore
Che dureranno più a lungo delle stelle del cielo.
E ho visto sguardi di preghiera, di tenerezza,
Estatici di carità
Che brilleranno in eterno per  notti e  notti.
Ho visto vite intere dalla nascita alla morte,
Dal battesimo al viatico,
Svolgersi come una bella matassa di lana.
Ora vi dico, dice Dio, non conosco nulla di così bello in tutto il mondo
Come un piccolo bimbo che s’addormenti nel dir la preghiera
Sotto l’ala dell’angelo custode
E che sorride da solo scivolando nel sonno.
E già mescola tutto insieme e non ci capisce più nulla
E arruffa le parole del Padre Nostro e le infila alla rinfusa tra le parole dell’Ave Maria
Mentre già un velo gli cala sulle palpebre,
Il velo della notte sul suo sguardo, sulla sua voce.
Ho visto i santi più grandi, dice Dio. Ebbene, io vi dico.
Non ho mai visto nulla di più buffo e quindi di più bello al mondo
Di questo bimbo che s’addormenta nel dir la preghiera
(Di quest’esserino che s’addormenta fiducioso)
E che mescola Padre Nostro e Ave Maria.
Nulla è più bello, e in questo perfino
La Santa Vergine è d’accordo con me.
Su quest’argomento.
E posso ben dire che sia il solo punto su cui andiamo d’accordo. Perché generalmente siamo di parere contrario.
Perché lei è per la misericordia.
E io, bisogna pure che io sia per la giustizia.

Così, dice Dio, come capisco mio figlio. Mio figlio l’ha detto e ridetto. (Perché bisogna intendere alla lettera ogni parola di mio figlio.) Sinite parvulos. Lasciate che vengano.
Sinite parvulos venire ad me. Lasciate che i piccoli vengano a me.
I piccoli bimbi.

Allora gli furono offerti dei piccini perché imponesse loro le mani e pregasse. Ora i discepoli li rimproveravano.
Ma Gesù disse loro: Lasciate i piccoli, e non impedite che vengano a me: talium est enim regnum coelorum. Infatti di costoro è il regno dei cieli. A loro, a quelli come loro appartiene il regno dei cieli.
E dopo avere imposto loro le mani, se ne andò.

 

Chiedete a questo padre

 

Chiedete a questo padre se il momento migliore
non è quando i suoi figli incominciano ad amarlo come degli uomini,
lui stesso come un uomo,
liberamente,
gratuitamente,  chiedete a questo padre i cui figli crescono.
Chiedete a questo padre se non c’è un’ora segreta,
un momento segret
o,
e se non è
quando i suoi figli incominciano a diventare degli uomini,
liberi,
e lui stesso lo trattano come un uomo,
libero,
lo amano come un uomo,
libero,
chiedete a questo padre i cui figli crescono.
Chiedete a questo padre se non c’è un’elezione fra tutte
e se non è
quando la sottomissione precisamente cessa e quando i suoi figli divenuti uomini
lo amano, (lo trattano), per così dire da intenditori,
da uomo a uomo,

liberamente,
gratuitamente. Lo stimano così.
Chiedete a questo padre se non sa che niente vale
uno sguardo d’uomo che s’incrocia con uno sguardo d’uomo.
Ora io sono loro padre, dice Dio, e conosco la condizione dell’uomo.
Tutte le sottomissioni di schiavi del mondo non valgono un bello sguardo d’uomo libero.
O meglio, tutte le sottomissioni del mondo mi ripugnano e darei tutto
per un bello sguardo d’uomo libero
a questa libertà, a questa gratuità io ho sacrificato tutto, dice Dio,
a questo gusto che ho d’essere amato da uomini liberi,
liberamente,
gratuitamente,
da veri uomini, virili, adulti, saldi.
Nobili, teneri, ma di una tenerezza salda.
Per ottenere questa libertà, questa gratuità ho sacrificato tutto,
per creare questa libertà, questa gratuità, Per fare entrare in gioco questa libertà, questa gratuità.
Per insegnargli la libertà. 

Charles Péguy, Il mistero dei santi innocenti, in Lui è qui, Milano, Rizzoli 1998, pag. 373-375

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30 novembre 2018 5 30 /11 /novembre /2018 17:54

 

IL SACERDOTE: EPIFANIA DELLA RADIOSA SANTITA' DI DIO

 

Timothy Radcliffe, O.P. - Chiamati ad irradiare gioia

Timothy Radcliffe, O.P.


Chiamati ad irradiare gioia - Ordine dei predicatori

 

[Esiste una profonda contraddizione tra sacerdozio a depressione. Sarebbe un controsenso proclamare il vangelo in uno stato di scoraggiamento. Perciò, diventeremo credibili annunciatori della "buona novella" soltanto se saremo ricolmi di gioia].

Pubblichiamo questo speciale in coincidenza con l'emanazione dell'istruzione Il presbitero pastore e guida della comunità parrocchiale, da parte della congregazione vaticana per il clero. Non per commentarla o presentarla, ma per trattare in parallelo di un aspetto che riguarda direttamente il prete diocesano, ossia il problema dello scoraggiamento che spesso insidia anche i migliori pastori d'anime di fronte all'apparente fallimento di ogni sforzo pastorale. Il testo che presentiamo riprende con qualche breve taglio una conferenza tenuta da P. Radcliffe, già maestro generale dei domenicani, in un incontro con i preti dell'Inghilterra e del Galles, organizzata di recente dal Consiglio della conferenza nazionale dei preti. Consapevole del rischio che corre oggi il prete, il padre ha invitato i presenti a riscoprire il senso della gioia cristiana, quale presupposto per dare un senso pieno alla propria azione pastorale. Sacerdozio e scoraggiamento sono una contraddizione in termini e una contro testimonianza del vangelo, ossia della buona notizia che si è chiamati ad annunciare.

L'intervento ci pare guanto mai pertinente anche per tutti i sacerdoti religiosi, e per quanti sono impegnati nella pastorale. Ma il problema riguarda anche le religiose che nella loro attività possono sperimentare uno stesso senso di frustrazione di fronte a risultati che sembrano spesso, almeno in apparenza, fallimentari, anche se in realtà non è così. Tutto sta nel saper guardare alle situazioni non con l'ottica umana, ma con quella del vangelo.

 

Quando ho incontrato il consiglio della Conferenza nazionale dei presbiteri per concordare il mio contributo alla conferenza, mi è stato detto che molti sacerdoti in Inghilterra e nel Galles si sentono depressi e demoralizzati. Personalmente non saprei quanto sia diffuso questo fenomeno; ma anche senza contare il numero dei sacerdoti attualmente depressi, ci sono molte buone ragioni per esserlo: la scarsità delle vocazioni, la mancanza di una chiara identità sacerdotale, la caduta di rispetto nei confronti della nostra vocazione, gli scandali degli abusi sessuali, la scomparsa dei giovani da molte parrocchie, il disaccordo con alcune posizioni della Chiesa e così via. Vorrei soffermarmi su alcune di queste situazioni, e nello stesso tempo chiedermi come possiamo affrontarle senza sentirci demoralizzati. È un problema serio dal momento che esiste una profonda contraddizione tra il sacerdozio e la depressione. Non è possibile annunciare il vangelo in uno stato di depressione. Sarebbe un controsenso. Noi possiamo essere dei credibili portatori della "buona novella" soltanto se fondamentalmente, anche se non proprio sempre, siamo ricolmi di gioia. Non sto parlando di quell'allegria chiassosa tipica di quanti vanno in giro dando pacche sulle spalle e invitando la gente a essere felice perché Gesù li ama. Questo tipo di atteggiamenti mi fa sentire profondamente depresso. Ho sempre odiato una canzone chiamata Don't Worry. Be Happy (Non angustiarti. Sii felice). Come può permettersi una persona di venirmi a dire di essere felice? Vorrei piuttosto parlare di una gioia profonda propria della nostra vocazione sacerdotale. Questa gioia è strettamente legata alla sofferenza e perfino alla collera. La nostra vocazione ci porta a condividere non solo la passione di Cristo, ma anche le sue passioni, le sue gioie, le sue sofferenze e persino le sue collere. Sono le passioni di quanti vivono intensamente il Vangelo. Vorrei perciò affrontare con voi alcune di queste situazioni che ci possono effettivamente deprimere, per vedere in che modo farvi fronte con sofferenza e gioia e persino con collera, anziché deprimerci o demoralizzarci.... Non credo sinceramente di essere la persona più adatta per parlare di queste cose. Ho trascorso gli ultimi dieci anni fuori dall'Inghilterra e perciò non posso dire di conoscere a fondo l'attuale realtà ecclesiale inglese. Inoltre sono un sacerdote religioso e per quanto ci troviamo di fronte alle stesse sfide, a volte noi le affrontiamo in modo diverso. Mi consolo comunque pensando a uno dei miei confratelli statunitensi che al termine di una sua conferenza ricevette degli applausi molto tiepidi. Si sedette e chiese al vicino: "E' andata poi così male?". Questi gli rispose: "Non preoccuparti; io non me la prendo con te; me la prendo con ti ha invitato a parlare"….

 

La perdita d'identità

 

Come tutti ben sappiamo, prima del concilio Vaticano II il sacerdote aveva una sua chiara identità. Era una persona sacra, un uomo del culto, con un suo status ben preciso e un conseguente rispetto dovuto alla sua consacrazione. Era stimato perché aveva il potere di consacrare il corpo e il sangue del Signore, anche se poi magari lasciava molto a desiderare come pastore e predicatore. Questa identità è stata messa in questione dal concilio. C'è stata la riscoperta del sacerdozio comune di tutto il popolo di Dio, della universale chiamata alla santità, del matrimonio come vocazione santa. Si è cominciato allora a vedere il sacerdozio soprattutto in termini di servizio e di leadership. Molti sacerdoti erano e sono entusiasti di questa nuova identità; in un certo senso essa ci ha liberato da un soffocante clericalismo e ci presenta un'identità più evangelica, più simile a quella del Cristo. Ma allora, qual è il problema? Come mai, a distanza di quarant'anni dal concilio, tanti sacerdoti si sentono oggi a disagio e confusi nella loro identità? Penso che i motivi siano sostanzialmente quattro.

 

1. L'idea del sacerdote servo e leader è molto bella, ma le parole tendono ad andare in due diverse direzioni. Se uno serve, di fatto poi si suppone che non comandi, come fa un autoritario maggiordomo. Mi ricordo di certi camerieri francesi che, con grande supponenza, tentavano in tutti i modi di far scegliere ai clienti il loro menù. Mi ricordo ancora di un vescovo irlandese che nel giorno della sua consacrazione episcopale annunciò di voler mettersi al servizio della sua diocesi con verga di ferro.

 

2. Nella teologia moderna l'immagine del sacerdote è spesso talmente idealizzata da riuscire irraggiungibile. Mentre mi preparavo a questa conferenza sono rimasto senza parole nel leggere che il sottoscritto sarebbe un brillante predicatore, un efficiente amministratore, un creativo genio liturgico, un paziente ascoltatore, uno stimolante leader, un guru spirituale, buono per i giovani e per i vecchi. Mi sono sentito profondamente demoralizzato; mi sono anzi convinto di essere un pessimo sacerdote che dovrebbe chiedere la laicizzazione. Quasi mi perdevate!

 

3. Tutta la teologia del "servizio" tende a sottolineare maggiormente ciò che il sacerdote deve fare anziché ciò che deve essere. Questo può facilmente portare a una visione utilitaristica del sacerdozio. Per essere un bravo sacerdote, uno dovrebbe lavorare in continuità e con efficienza; ma in questo mondo secolarizzato, con la costante diminuzione della pratica religiosa, ci sembra spesso di aver fatto ben poco e di aver accumulato tanti insuccessi.

 

4. Il concetto di ministero si è esteso enormemente. Negli USA l'80% delle persone che esercitano un ministero nella Chiesa sono laici, e l'80% di questi laici sono donne. Ne derivano due conseguenze. Anzitutto che il sacerdote si sente meno speciale. Vale la pena abbracciare il sacrificio del celibato e tanti stress per essere uno di questi ministri, mentre gran parte degli altri ministri possono godersi le gioie del matrimonio? Inoltre, il sacerdozio è oggetto di tante aggressioni da parte di coloro che se ne sentono esclusi, vale a dire uomini sposati e donne. Così il sacerdote rischia di sentirsi contemporaneamente deprezzato e invidiato, e questa è la peggiore delle situazioni. "Come osate escludermi da questo ruolo così importante che voi esercitate?".

 

È perciò comprensibile che alcuni sacerdoti, spesso giovani, sentano nostalgia dei "bei tempi passati", quando il sacerdote era percepito soprattutto come una persona del culto, felice delle sue mani consacrate. Altri sacerdoti invece temono ciò come un ritorno ad una visione elitaria del clero, apprezzano la teologia del "servizio", ma molti ammettono di sentirsi insicuri e di non sapere chi sono e che cosa significhi essere prete oggi.

 

Esiste una via d'uscita?

 

C'è una via d'uscita? Io credo di sì, e si può trovare nella Lettera agli Ebrei, l'unico documento neotestamentario che sviluppa una teologia del sacerdozio. Qui abbiamo una visione di Cristo sommo sacerdote, persona sacra che celebra un culto celeste. Ma la sua santità non lo separa affatto dagli altri, anzi lo unisce più intimamente a noi. Ci viene qui offerta una profonda visione del sacerdozio, che purtroppo non ho il tempo di sviluppare, che ci porta oltre la polarizzazione di coloro che vedono il sacerdote in termini di servizio e quanti invece sono nostalgici del sacerdote come persona sacra. La concezione veterotestamentaria della santità implicava la separazione del sacerdote da tutto ciò che era impuro e imperfetto. Il sommo sacerdote non poteva avvicinarsi a un cadavere. Ma nella Lettera agli Ebrei troviamo una visione della santità di cui è avvolto il suo capo. La santità di Cristo si mostra nell'accogliere tutto ciò che in noi sa di imperfezione peccaminosa. Questa santità non si esprime con la distanza ma con la vicinanza. Il momento culminante di questo suo sacro ministero fu quando egli abbracciò la morte, la più impura delle cose, e divenne lui stesso un cadavere. "Perciò anche Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta delta città. Usciamo dunque anche noi dall'accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio" (Eb 13:12-13). I vangeli non parlano mai direttamente di Cristo come sacerdote, ma possiamo trovare in essi questa stessa teologia della santità. Egli abbraccia gli intoccabili, i lebbrosi; mangia e beve con i peccatori; è l'agnello sacrificale che muore sull'altare della croce. Così tutto il popolo di Dio è un popolo Santo e sacerdotale, poiché incarna l'abbraccio di Cristo di tutti noi nelle nostre vite disordinate, con tutte le debolezze e mancanze. La santità della Chiesa si manifesta nella sua apertura ai peccatori, non nella loro esclusione; James Joyce, parlando della Chiesa, l'ha definita il luogo dove "entra chiunque". Essa offre a noi ministri ordinati una visione del nostro sacerdozio, completamente libera dall'elitarismo clericale, e fondata sull'unione e identificazione con il popolo nelle sue lotte e nei suoi fallimenti. Consentitemi una confessione. Poco prima della mia ordinazione incominciai ad avere dei grossi dubbi proprio in riferimento alla mia chiamata al sacerdozio. Si era radicata in me una profonda avversione verso il clericalismo e ogni forma di superiorità sacerdotale. Temevo di essere ipocrita, dal momento che sapevo di non essere migliore di nessun altro. Ho accettato l'ordinazione esclusivamente in obbedienza ai miei fratelli. Potevo identificarmi con sant'Agostino che pianse quando fu ordinato sacerdote. I cinici pensavano che piangesse perché non era stato fatto vescovo, mentre in realtà era perché non desiderava essere ordinato sacerdote. Dopo la mia ordinazione vidi con terrore il parroco della mia parrocchia d'origine venire verso di me. Soltanto due anni prima, preoccupato della mia salvezza, mi aveva perentoriamente ingiunto di lasciare "quegli eretici domenicani", se volevo salvare l'anima. Quel giorno invece mi si buttò ai piedi chiedendomi di benedirlo con le mie mani consacrate. Corsi a rifugiarmi nella mia camera per trovare un po' di calma; ma tornai indietro dopo che uno dei miei confratelli tedeschi mi aveva seguito al piano superiore tentando di parlarmi di Heidegger! Era la cosa peggiore che mi potesse capitare!

 

Quel funerale a Westminster

 

Finalmente cominciai ad amare il mio sacerdozio in confessionale. È stato qui che ho scoperto che l'ordinazione ci pone a contatto con le persone proprio nel momento in cui esse si sentono il più lontano possibile da Dio. Noi siamo uno di loro, siamo al loro fianco, nel momento in cui guardiamo insieme la fragilità umana, le mancanze e i peccati, i nostri e i loro. Ciò che preoccupa nel clericalismo non è tanto che esso fa del prete una persona sacra, quanto piuttosto la concezione che ha del sacro, che è derivata dall'Antico Testamento anziché dal Vangelo. Una delle circostanze più sacre alle quali io abbia mai preso parte è stato il funerale di un certo Benedetto, circa venticinque anni fa. Gli avevo amministrato l'olio degli infermi poco prima che morisse di Aids, e la sua ultima richiesta fu che gli celebrassi il funerale nella cattedrale di Westminster. Questa richiesta comportò ovviamente non poche trattative. Durante i funerali, la bara fu posta al centro della cattedrale, con attorno i suoi amici, molti dei quali anch'essi ammalati di Aids. In questo centro simbolico della vita cattolica dell'Inghilterra c'era il corpo di uno dei più grandi esclusi della società odierna, un ammalato di Aids, gay e morto. In questo momento possiamo vedere l'epifania della radiosa santità di Dio. Questa visione del sacerdozio è essenzialmente missionaria, rivolta al di fuori. Ciò significa che il servizio della comunità cristiana non può essere il ministero dei preti con l'esclusione di tutti gli altri ministri. Per quanto grande sia la carenza di sacerdoti, la diocesi deve tentare di renderne disponibili alcuni per altri impegni esterni, in modo che quanti non avvicineranno mai la Chiesa possano essere raggiunti e accolti. E se il proprio ministero è quello parrocchiale allora bisogna che la parrocchia sia in certo senso missionaria, rivolta all'esterno. La santità del sacerdozio non comporta necessariamente una superiorità morale rispetto agli altri. È l'opposto dell'elitarismo. Ciò implica una certa dislocazione sociale del sacerdote ordinato. Noi non abbiamo un posto chiaro nella gerarchia sociale. Siamo persone sfuggevoli che si trovano a loro agio sia con i principi sia con gli spazzini. Dobbiamo incarnare un'inclusione che può non essere del tutto comprensibile alla nostra società, ed essere disponibili a tutti, al di là di ogni inclusione ed esclusione. Ero studente a Parigi quando il cardinal Danielou morì sulle scale mentre si recava a visitare una prostituta. La stampa si lanciò in tutte le possibili insinuazioni. Ma, per quanto ne sapessi, egli era un sant'uomo e un bravo sacerdote. Per certi versi, quello è stato il luogo ideale per la morte di un cardinale. Può andare ancora bene se ci vestiamo in modo alquanto strano, e a volte indossiamo persino vesti che altre persone hanno smesso di portare almeno cinquecento anni fa. Ciò può far pensare che ci mettiamo in contrasto con le strutture ordinarie. Mi viene in mente un mio confratello americano al cui nome, come nel caso di tanti americani irlandesi, era stato aggiunto anche quello di Maria. Questi si era messo a criticare, nella sala comune, le persone che sarebbero state ordinate sacerdoti in quei giorni, a suo parere tutte eccentriche, omosessuali e Dio sa cos'altro. Uno dei confratelli presenti gli disse: "Ascolta un po'; tu ti chiami Maria e porti anche una tonaca; ti sembra di essere una persona proprio così normale?".

 

Sacerdote per gli altri

 

Sto dicendo che il sacerdote è chiamato a rappresentare Dio nella sua vita ed essere un suo prolungamento verso l'intera umanità dispersa. Questo ci porta oltre la dicotomia di coloro che vedono il sacerdozio in termini dell'essere e quelli che lo vedono soltanto sul versante del fare. Tutto ciò che noi come sacerdoti ordinati siamo chiamati a fare è di esprimere e incarnare la santità di Dio vivendo in Cristo, trasformando i lontani in vicini, la morte in vita, la sofferenza in gioia. Come deve vivere la sua vocazione un sacerdote oggi, specialmente di fronte alla crisi della Chiesa e della società? La mia impressione è che la spiritualità del sacerdote diocesano è profondamente radicata nella vita dei laici. Il vescovo statunitense Untenor ha scritto che il sacerdote diocesano "appartiene alla comunità dei discepoli di Gesù Cristo. In quanto sacerdoti, condividiamo le stesse lotte dei laici, viviamo nello stesso loro mondo". Si tratta, nel senso più profondo, di una spiritualità laicale, di una spiritualità con e per il laos, la gente. Io sono cresciuto pensando che il prete di prima classe fosse un membro di un ordine religioso. Mi sembrava che ci fosse un po' di contrasto tra il termine "secolare" e la parola "sacerdote" come se il sacerdote secolare non fosse sacerdote dello stesso grado. Se accettiamo la teologia della Lettera agli Ebrei, allora il sacerdozio non è altro che l'accoglienza da parte di Dio di tutto ciò che è secolare, di tutto ciò che è laico. Il nostro "sommo sacerdote", infatti, era un laico. Essere sacerdote "secolare" esprime ciò che è al cuore di ogni sacerdozio. Forse siamo noi religiosi le persone strane a cui è necessario spiegare il loro sacerdozio. È un po' tardi per me scoprirlo dopo trent'anni di vita come prete domenicano. Se questa spiritualità è soprattutto inserita nella vita dei laici, allora è proprio qui che il sacerdote secolare spesso anche quello religioso — trova la sua più grande gioia, ma anche la più profonda sofferenza e persino lo scoraggiamento.

 

La vera leadership del sacerdote

 

Vorrei ora soffermarmi brevemente su tre aspetti particolarmente importanti: le difficoltà proprie della leadership, il frequente insuccesso delle parrocchie nell'essere comunità, così come noi le vorremmo, e infine la sofferenza di vivere il nostro sacerdozio così vicino a tanti fallimenti e a tante tragedie. Gran parte della letteratura teologica odierna è dedicata al tema del sacerdote in quanto leader. Devo confessare di trovarmi a disagio a questo riguardo. Perché? Anzitutto perché, come ho detto prima, si coniuga molto male con l'idea di servizio. Come può uno sentirsi un servitore e insieme un leader del popolo di Dio? Questa tensione può facilmente confondere il nostro rapporto con coloro con i quali collaboriamo. Questi infatti sono affascinati dall'idea che il sacerdote è qui per servire e possono rimanere un po' sorpresi che ciò consista normalmente nel dire loro quello che devono fare! Più radicalmente ancora, la parola leader mi richiama il mondo degli affari. Dal leader ci si aspetta che sia competente e risoluto, una persona che non mostra debolezza o esitazione, e capace di prendere decisioni coraggiose. Soprattutto la leadership è spesso valutata in termini di successo e di risultato, di raggiungimento degli obiettivi. Ma il sacerdozio non è fatto per il successo e il risultato. Spesso ci accorgiamo di non aver realizzato granché. Se pensiamo a noi stessi come a dei leader, allora ci accorgiamo del nostro fallimento. La nostra gente, quella che spesso vive e lavora nel mondo degli affari, se ha la fortuna di avere un impiego, non viene da noi sperando di trovare in parrocchia gli stessi valori che trova in ufficio. Eppure il termine è diventato molto popolare nella Chiesa, e spesso anche nella vita religiosa. Tutte le volte che mi chiedono quanto tempo ho esercitato la leadership, sono solito rispondere: "Mai fino ad oggi". Ma è la Lettera agli Ebrei ad offrirci una visione della leadership sacerdotale, nel senso che ci presenta un modo di essere in relazione con gli altri, che non è né di dominio né di fallimento. Gesù è modello della nostra fede, "per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo" (10:20). Lui cammina davanti a noi alla presenza di Dio. Gesù guida precedendoci, facendo il primo passo. La nostra leadership si manifesta nell'essere persone disposte a fare il primo passo: nel raggiungere gli esclusi e gli emarginati, offrendo e chiedendo perdono. Nella parabola del figlio prodigo, la riconciliazione avviene perché ambedue, il figlio minore e il padre, compiono il primo passo in due differenti direzioni. Il figlio fa il primo passo del ritorno a casa e il padre, quando lo vede ancora lontano, fa il primo passo per andargli incontro. Il Papa ci ha concretamente mostrato ciò che questo significa andando incontro agli ortodossi, agli ebrei e ai musulmani, col rischio anche di un rifiuto. Ha compiuto il primo passo chiedendo perdono per i peccati della Chiesa, nonostante un'opposizione in Vaticano. Questa è leadership. Allo stesso modo, per noi essere leader non significa essere competenti in tutto, persone di decisione in grado di dire a chiunque altro ciò che deve fare. Significa piuttosto compiere il primo passo davanti alla gente, accogliere quelli che forse non ci vogliono, invitare le persone a fare molto di più di quello che hanno sempre ritenuto possibile, perdonare e chiedere perdono. Questo può farci sentire soli. La vera leadership, in questo senso, può condurci fino alla solitudine della croce. Forse, nell'ethos universale del mercato, la nostra leadership può consistere anche nel lasciar cadere la maschera della competenza, nel far fronte ai nostri limiti e ai nostri fallimenti e non esserne preoccupati. Possiamo continuare a guardare in faccia la nostra fragilità senza paura. Leadership, soprattutto, significa compiere il primo passo dentro la vulnerabilità. La vera leadership ci dà la gioia profonda e la libertà di lasciar cadere le pesanti maschere dell'essere riconosciuti, di apparire uomini forti che avrebbero raggiunto grandi successi, se il Signore li avesse chiamati alla British Petroleum anziché al sacerdozio.

 

Comunità o stazioni di servizio?

 

Un'altra area nella quale possiamo facilmente incontrare l'insuccesso e lo scoraggiamento è quella delta creazione della comunità parrocchiale. Le parrocchie non sono sempre quelle belle comunità di cui leggiamo nei libri di teologia. Incontrando il consiglio della Conferenza nazionale dei sacerdoti, un sacerdote mi espresse la sua frustrazione perché troppo spesso la parrocchia era vista più come una stazione di servizio che non come una genuina comunità. La gente, diceva, si accontenta di una capatina in chiesa per una messa fugace anziché riunirsi attorno all'altare come popolo di Dio. Il gruppo liturgico parrocchiale cerca di preparare una festa copiosa, ma molte persone si accontentano di un piccolo rinfresco prima di ritornare a casa per la vera celebrazione del pranzo domenicale. Tutto questo non sorprende. Nella città moderna il territorio parrocchiale è tracciato prescindendo da qualsiasi senso naturale della comunità. Il sacerdote considera la parrocchia come la sua principale comunità, ma per molta gente, invece, essa occupa uno degli ultimi posti nella lista dei luoghi di appartenenza, dopo le loro case, i club calcistici, le scuole dei loro figli e i posti di lavoro. Tutto questo può insinuare nel sacerdote l'idea del fallimento, di non essere riuscito a radunare la gente attorno all'altare e di costruire una comunità eucaristica. Non è mio compito guardare al futuro della parrocchia territoriale e proporre eventuali alternative; mi limito qui ad esprimere un semplice punto di vista, ossia che qualsiasi comunità che cerchiamo di formare spesso è destinata in certo senso al fallimento perché il regno di Dio non è ancora venuto. Ogni comunità cristiana, sia che si tratti di una parrocchia, di un priorato dei domenicani o della "Legio Mariae", è un simbolo difettoso e incrinato della comunità a cui aspiriamo, quella del Regno. Se una parrocchia avesse troppo successo potremmo commettere l'errore di pensare che il Regno è arrivato e di scambiare il parroco col Messia.

 

La comunità "fallimentare" dell'ultima cena

 

La riunione archetipa della comunità cristiana è stata l'ultima cena. E penso al grande fallimento che fu quella comunità: uno dei discepoli ha venduto Gesù, un altro lo ha rinnegato e tutti i restanti sono fuggiti. Gesù non è riuscito a riunire i suoi discepoli in una comunità quell'ultima notte, perciò non dobbiamo essere sorpresi se non riusciamo a fare meglio di lui. Gesù ha voluto offrirci il Sacramento della comunità, il segno del Regno che doveva venire come dono nel tempo opportuno. Se la parrocchia non è una comunità grande e dinamica, ciò non è affatto segno del nostro personale fallimento. A volte non possiamo fare nulla di più che porre dei segni di ciò che ha da venire. Quando ero giovane studente domenicano a Oxford, andai nella cappellania a trovare Michael Hollings. Purtroppo questi mi mandò via con una ramanzina perché non amava i religiosi. Anni dopo imparai a conoscerlo a ad apprezzarlo. Dovunque andava teneva la sua casa aperta, a Oxford, Southall e Bayswater. Una volta colse un ladro intento a rubare; lo invitò a rimanere con lui per il tè. Sapevo benissimo che non sarei mai stato capace di affrontare un tal genere di vita, ma ho ammirato ciò come un segno del Regno. Certamente non era il Regno, almeno io spero, ma era un segno di quel Regno che è aperto a tutti. Noi non possiamo costruire da noi stessi questa comunità, ma solo porre qualche gesto che lo indica. Esso verrà come un dono e una sorpresa. Nel marzo scorso ero al Cairo e ho voluto visitare quella parte della città che i turisti raramente vedono, Mukatan. E' la città dei raccoglitori di immondizie. In quel luogo vivono almeno 300.000 persone, in gran parte cristiani. Costoro ogni mattina vanno a raccogliere le immondizie della città e le portano a Mukatan dove le assortiscono per cercare quello che è possibile rivendere o riciclare. È il posto più sporco, puzzolente e deprimente che io abbia mai visto. Le persone sembrano mezze morte; anche i bambini che giocano a pallone in quelle strade sembrano quasi in letargo, come dei vecchi. A ridosso di questo orribile posto ci sono alcune rocce. Un artista polacco ha trascorso quasi tutta la sua vita a ricoprirle con immagini di Cristo glorioso. Quando i raccoglitori di immondizie ritornano a casa con i loro carretti ricolmi di carichi puzzolenti, possono ammirare su quelle rocce la trasfigurazione, la risurrezione e l'ascensione di Cristo. Le immagini proclamano che essi non sono raccoglitori di immondizie ma cittadini del Regno, destinati alla gloria futura. Essi si tengono vivi con dei segni. Questo è ciò che noi possiamo offrire.

 

Viaggio nell'anno liturgico

 

Il sacerdote è il portatore della buona notizia. Questo è il motivo per cui lo scoraggiamento mina in profondità la nostra vocazione. Nessuno ci crederà se abbiamo l'aspetto di persone depresse. Il ruolo del sacerdote è spesso quello di portare questa buona notizia proprio alla gente la cui vita è toccata dalla disperazione e dai fallimenti. Tony Philpot ha scritto che "il sacerdote diocesano ha a che fare, ex professo, con i fallimenti. In essi c'è evidentemente il suo stesso fallimento, la consapevolezza del suo peccato. Ma c'è anche il fatto che il vangelo è soprattutto perdono dei peccati, e la vocazione del sacerdote è quella di avere a che fare con i peccati del suo gregge.... Il fallimento è il materiale grezzo sul quale egli lavora". Nella nostra società siamo anche confrontati con tutti i mali e le sofferenze della società nella quale il crollo delle strutture sociali e la secolarizzazione significano per molta gente la perdita del senso della loro vita. Come possiamo continuare a essere dei gioiosi portatori di liete notizie quando attorno a noi vediamo così frequentemente famiglie rovinate, giovani smarriti e drogati e insieme il trionfo di una cultura della banalità? Evidentemente il primo modo per poterlo essere è con la celebrazione dell'anno liturgico. Si tratta di una storia intessuta di sofferenze, di fallimenti, di umiliazioni, di peccati, di esilio ma che nello stesso tempo ci proietta oltre, verso il Regno. Ogni anno siamo liberati dall'Egitto e ci incamminiamo verso la Terra promessa. Cominciamo con l'Avvento e andiamo verso il Natale, e dalla quaresima verso la Pasqua, la Pentecoste fino alla festa di Cristo Re. Riviviamo la demoralizzazione degli israeliti nel deserto, e dei loro discendenti in esilio a Babilonia, e siamo condotti oltre. Gesù dice ai discepoli durante l'ultima cena: "Voi ora siete nella tristezza, ma io vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia" (Gv 16:22). Noi riviviamo ogni anno una storia che trasforma la sofferenza in gioia.

Ma questa non è una risposta sufficiente. Nonostante le celebrazioni dell'anno liturgico alcuni sacerdoti si sentono ancora depressi e demoralizzati. Questa realtà annualmente rivissuta ci conduce verso la Terra promessa, ma quando stiamo per entrarvi e riposarci, bisogna cominciare tutto di nuovo. L'anno liturgico sembra perciò una specie di gioco dell'oca liturgico: giungiamo fino alla festa di Cristo Re e poi, oplà, scivoliamo giù di nuovo per cominciare tutto daccapo. In questa ripetizione senza sosta, qualche bagliore della fine della giornata deve apparire anche ora. Anche adesso dobbiamo assaporare la gioia e la pace del Regno.

 

Dobbiamo vivere ora in modo tale che il popolo di Dio colga qualche cenno della fine del viaggio. Non possiamo aspettare fino alla morte per diventare vivi. Diversamente, perché mai la gente dovrebbe credere che siamo in viaggio verso una meta?

 

Perciò credo che se il sacerdote vuole essere un portatore di buone notizie, allora bisogna che viviamo uno stile di vita in cui già ora irrompe l'eternità. Non è sufficiente sopravvivere. Dobbiamo fiorire. Ciascuno di noi ha bisogno di un genere di vita che realmente ci offra vita, di vivere pregustando la vita eterna. In caso contrario saremo sopraffatti dalle sofferenze del nostro tempo, oppure soccomberemo alla sua cultura della banalità. II nome primitivo della vita cristiana era "la via". Dobbiamo mostrare che è una via verso una meta e non un girare intorno nel deserto.

 

La leadership del cardinale Bernardin

 

Il grosso problema è di sapere come un sacerdote possa vivere questa via della vita. Alcuni sacerdoti diocesani mi hanno detto che è facile per noi religiosi parlare di una via della vita, specialmente quando non si hanno responsabilità parrocchiali. Noi religiosi infatti abbiamo una regola da seguire; viviamo in comunità; e abbiamo un maggior controllo sulla nostra esistenza rispetto ai sacerdoti diocesani, i quali sono sempre a disposizione dei loro parrocchiani e impossibilitati a prevedere tutte le peripezie della loro giornata. Altri sacerdoti negano tutto questo e dicono che anche il  sacerdote diocesano può e deve organizzare il suo tempo in modo da poter pregare, rilassarsi e riprendere energie. Altri ancora dicono che questo sarebbe possibile se il vescovo sapesse far fronte alla crisi della mancanza di sacerdoti e stringesse un po' i denti. Vorrei chiedervi di riflettere su come potete impostare la vostra vita sacerdotale in modo tale che già fin d'ora la gente possa intravedere in voi i primi frutti della nuova creazione: libertà, pace e gioia. Sono convinto che tutto questo è possibile. Anche voi, come Gesù, siete consegnati nelle mani degli uomini e delle donne. Come Gesù avete preso l'enorme rischio di donarvi liberamente alla gente. Quando il cardinal Bernardin fu consacrato arcivescovo di Chicago, disse ai suoi fedeli: "Per tutti gli anni che mi saranno concessi, io darò me stesso a voi. Offro il mio servizio e la mia leadership, le mie energie, i miei doni, la mia mente, il mio cuore, le mie forze e, sì, anche i miei limiti. Mi offro a voi nella fede, nella speranza, nell'amore". Questo è veramente un dono eucaristico di sé: "Questo è il mio corpo, dato per voi". E tuttavia Gesù rimase la persona più libera che mai sia esistita, proprio nella sua prima obbedienza al Padre. Ha consegnato volontariamente se stesso nelle nostre mani e tuttavia non è stato mai un passivo burattino. Ha impostato la sua vita proprio come ha fatto il cardinal Bernardin. Quando questi era giovane vescovo si era reso conto che la sua vita era interamente consumata nell'inseguire gli avvenimenti, o dal disbrigo degli affari. Aveva quindi avvertito l'esigenza di ritagliarsi uno stile di vita che includesse la preghiera e lo studio. Come possiamo anche noi trovare quella libertà eucaristica sì da poter donare la nostra vita e nello stesso tempo vivere uno stile di vita in cui la luce del Regno possa essere intravista? È un interrogativo che pongo a ciascuno di voi. Abbiamo bisogno di un ritmo di vita che ci permetta momenti di riposo, di riposare con Dio e anche con noi stessi. Abbiamo bisogno di momenti in cui poter scomparire e non fare niente, settimanalmente, mensilmente o annualmente. E questo, in primo luogo, non perché una volta riposati saremo più efficienti ed efficaci, per quanto sia grande il problema del burnout. Si tratta di qualcosa di più della buona amministrazione. La ragione è che la buona novella che predichiamo consiste nell'annunciare che tutti gli esseri umani sono chiamati a riposare in Dio e a condividere con lui il suo sabato. Questo è il vangelo: il fatto che siamo tutti cittadini del Regno nel quale un giorno soggiorneremo e dove consumeremo il nostro tempo con Dio per tutta l'eternità. La più grande dignità degli esseri umani è di essere chiamati a "giocare" con Dio per l'eternità, homo ludens. Chi mai ci crederà se non ci hanno mai visto riposare ora? Molti di noi sono costrittivamente occupati e come tali vogliono essere visti. Io sono uno di questi. Se vogliamo essere predicatori credibili non dobbiamo avere paura di farci vedere, a volte, un po' pigri. Dovremmo avere il coraggio di esporre sulle porte della nostra chiesa un avviso che dice: "Niente messa per i prossimi tre giorni. Sono in vacanza". Dobbiamo resistere alla diabolica voce interiore che ci accusa di essere dei cattivi preti. Io ammetto di essere veramente manchevole in questo. Infatti ho trascorso gran parte del mio tempo sabbatico in occupazioni e soprattutto assicurandomi che gli altri mi vedessero occupato. Qualche volta mi diverto con dei giochetti al computer; ma sono talmente abile nel cambiare la schermata che se sento arrivare qualcuno immediatamente vi faccio comparire la mia omelia della domenica. Ma questo è il modo di agire di uno che, come me, sta solo cominciando a credere nel vangelo di grazia che predico. Ricordo quando il maestro del nostro ordine fece una visita ai domenicani, a Oxford, una ventina d'anni fa. Volevamo essere sicuri che avesse l'impressione che noi eravamo dei frati fortemente impegnati, per il fatto che le nostre vite erano piene di buone opere. Quando lo incontrammo al termine della visita, ci attendevamo compiaciuti una bella lode. Invece nient'affatto. Disse: "La mia unica osservazione è che tutti voi lavorate troppo. Non credete forse nella grazia? Non dovete salvare il mondo" . Era troppo tardi per dirgli che noi veramente non lavoravamo così tanto, ma che volevamo solo dargliene l'impressione.

 

Trasmettere la gioia del Regno

 

Infine, la gioia del Regno.... Fa parte della nostra vita sacerdotale gioire della vita stessa della gente, dei loro incerti tentativi di vivere e di amare, siano essi sposati o divorziati o singoli, siano persone per bene o gay, che vivano o no secondo gli insegnamenti della Chiesa. La santità del sacerdozio deve irradiare questa gioia. La Chiesa dovrebbe essere una comunità nella quale la gente possa scoprire la gioia di Dio nei loro riguardi. Questo è il nostro ministero. E il nostro sacerdozio dovrebbe fare di noi delle persone appassionate, appassionate della nostra gioia e appassionate della nostra sofferenza, della sofferenza della gente o della loro rabbia dovuta all'oppressione. Se troveremo gioia nella gente allora la gente troverà gioia in noi. Dobbiamo scoprire la gioia di Dio in noi, una gioia offerta spesso anche dalle persone più inattese, che forse non hanno mai creduto in lui. Se la gioia sta realmente al cuore del nostro sacerdozio, allora ci preoccuperemo della felicità degli uni per gli altri. La felicità dei sacerdoti dovrebbe costituire la prima preoccupazione dei vescovi e del presbiterio diocesano. Se ci accorgiamo che un sacerdote è triste, non è giusto pensare che debba arrangiarsi da solo. Se noi stessi siamo immersi nella tristezza, non possiamo fare affidamento su una specie di individualismo da uomini forti per venirne fuori. La gioia del sacerdote non è solo un suo problema privato nel senso che è parte intrinseca della sua predicazione del vangelo e la manifestazione della santità di Dio. Dobbiamo sforzarci di cercarla gli uni per gli altri. Dobbiamo avere a cuore la felicità degli uni per gli altri.

Ref.: Testimoni (Centro Editoriale Dehoniano), n. 18, 31 ottobre 2002, pp. 22-

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30 novembre 2018 5 30 /11 /novembre /2018 12:27

 

 

 

(Tratto da: operabirgi.it)

SE L’AMORE È COME IL BUNGEE-JUMPING

 

Gli adolescenti e i corsi di “educazione” sessuale

 
 
08/04/2015

di padre Bruno de Cristofaro icms

M’INCURIOSISCE la sollecitudine con cui le scuole superiori della città in cui vivo, stanno proponendo agli alunni corsi di educazione sessuale. In merito, mi ronzano nella testa diverse domande che -come educatore che ha a che fare quotidianamente con ragazzi adolescenti- non posso non farmi (e fare, a chi di dovere).
La sostanza di ciò che viene trasmesso nella maggior parte di questi incontri si riduce a informare e sensibilizzare gli adolescenti circa l’utilizzo dei metodi contraccettivi e -nel caso- abortivi. Metodi generalmente ammanniti come prassi per esercitare responsabilmente la sessualità.

A proposito, avrei due domande.
LA PRIMA: stiamo veramente facendo educazione sessuale ai ragazzi quando insegniamo loro come s’indossa un preservativo o come si assume una pillola? Posto che la quasi totalità degli adolescenti non ha bisogno che queste cose gliele spieghino gli adulti (loro sono meno ingenui di quanto pensiamo), possiamo veramente dire di averli fatti crescere nella loro personalità e nella loro maturità affettiva dopo che gli abbiamo detto: “Tieni, con queste protezioni puoi stare tranquillo”?

LA SECONDA: se è di responsabilità che parliamo, perché tanta premura di mettere in mano agli adolescenti dei giocattoli deresponsabilizzanti? Se essere responsabili significa, letteralmente, essere “capaci di rispondere”, illudere i ragazzi che possono avere rapporti senza dover rispondere delle conseguenze delle loro azioni può ancora coincidere col vivere responsabilmente la sessualità? È davvero così difficile capire che certa “educazione” sessuale si riduce a dire al ragazzo e alla ragazza: «Corri forte quanto vuoi, l’importante è che allacci bene la cintura di sicurezza e che gli airbag funzionino»?
Insegnare a guidare, ovviamente, è molto più faticoso. E dei maligni (da cui ovviamente mi dissocio, perché non voglio dubitare della buona fede di alcuno) potrebbero addirittura dire che a certi adulti interessa solo limitare i problemi che interferirebbero con la loro vita: un alunno che contrae una malattia venerea, oppure (orrore!) una figlia che rimane incinta…

DI CERTO, COMUNQUE, NON È SEMPLICEMENTE UNA QUESTIONE DI SVOGLIATEZZA. Ho paura che dietro questo “metodo educativo” si celi una costitutiva sfiducia (degli adulti!) nei confronti dei giovani. Sfiducia di recente denunciata anche da un educatore di eccezione, un educatore dalla vastissima esperienza: «Nell’invitarvi a riscoprire la bellezza della vocazione umana all’amore, vi esorto a ribellarvi contro la diffusa tendenza a banalizzare l’amore, soprattutto quando si cerca di ridurlo solamente all’aspetto sessuale, svincolandolo così dalle sue essenziali caratteristiche di bellezza, comunione, fedeltà e responsabilità… vi chiedo di essere rivoluzionari, vi chiedo di andare controcorrente; sì, in questo vi chiedo di ribellarvi a questa cultura del provvisorio, che, in fondo, crede che voi non siate in grado di assumervi responsabilità, crede che voi non siate capaci di amare veramente. Io ho fiducia in voi giovani…» (Messaggio del Santo Padre Francesco per la XXX Giornata Mondiale della Gioventù 2015).

L’IMPRESSIONE È CHE, FATTA SALTARE OGNI ETICA (ritenuta ovviamente retrograda o conservatrice), se ne stia instaurando una nuova, più raffinata, più alla moda: quella “del bungee-jumping”. Cioè: «Bùttati quando e come ti pare, l’importante è che sei ben legato all’elastico; non commettere mai il “peccato” di contagio o quello di gravidanza. Poi, se proprio cadi, non ti preoccupare, c’è il moderno confessionale che è il Consultorio, naturalmente protetto dal sacro segreto: là ti fanno abortire anche senza che i tuoi genitori sappiano niente» (quest’ultima cosa è stata espressamente detta in una scuola, ai ragazzi con cui lavoro).
Ecco il destino di chi disprezza la morale: il più bieco, cinico moralismo.
E ancora: qualcuno è davvero così ingenuo da credere che un ragazzo o (ancor più) una ragazza, possa passare con tutta tranquillità e senza conseguenze dall’esperienza di un rapporto sessuale solo perché c’è di mezzo uno strato di lattice? Sembra quasi, a sentire questi corsi, che se il rapporto è “protetto”, tutto fila liscio come l’olio. Francamente, mi chiedo se certi educatori hanno mai parlato con un adolescente, se hanno mai raccolto le lacrime di un ragazzo o di una ragazza, se hanno mai dovuto medicare certe dolorosissime ferite. Quella di evitare le conseguenze del rapporto, come dicevo prima, è solo un’illusione: le barriere fisiche o chimiche non scansano certo le conseguenze emotive, psicologiche, esistenziali, spirituali e morali di un rapporto sessuale, le conseguenze più profonde -insomma- e spesso più drammatiche. Perché qualcuno ha così a cuore la volontà di illudere i giovani?

PER ESPERIENZA DIRETTA, SO CHE I RAGAZZI VOGLIONO ALTRO da noi educatori. Vogliono, per esempio, che qualcuno gli insegni che significa amare e che significa fare l’amore (ma il significato, il senso che essi cercano sta ben oltre un’informazione puramente “meccanica”). Vogliono che qualcuno gli insegni che significa essere fidanzati (perché cominciano ad accorgersi che i cuoricini di whatsapp non bastano per andare d’accordo). Vogliono che qualcuno gli insegni che significa diventare padre e diventare madre (perché scoprono che il loro corpo cambia e che il loro spirito vuol “venir fuori” per dare la vita a qualcun altro). Vogliono che qualcuno gli insegni che significa essere sposi (perché anelano a un amore che non finisce mai). Vogliono tutto questo perché, nonostante le esperienze negative, essi colgono le scintille di luce che ancora si nascondono fra le pieghe della vita. Ebbene, compito dell’educatore è proprio quello di alzare il velo su questa luce perché finalmente dilaghi e loro se ne innamorino. Ecco a cosa dovrebbero servire i corsi di educazione (stavolta senza virgolette) all’affettività (perché i ragazzi non sono bestie).
Perché invece continuiamo a soffocare la luce in questi ragazzi, col disincanto tipico di chi è rimasto deluso dalla vita? Possibile che tutto quello che sappiamo dire è: «Non puoi farci niente: sei e sarai sempre vittima dei tuoi istinti più bassi, il mio compito si limita a fornirti le protezioni per uscirne il meno ammaccato possibile»? Dovevamo essere quelli che trasmettevano passione per la vita e ci siamo ritrovati a trasmettere solo paure.

MA C’È ALTRO: quando la pillola del giorno dopo e quella dei 5 giorni dopo, sono proposte ai ragazzi come “contraccettivi” o addirittura come “medicine”, comincio a farmi qualche seria domanda sull’onestà intellettuale di chi parla ad una platea di adolescenti spesso ancora priva di competenze mediche.
In proposito, segnalo i
l clamoroso autogol di chi, presentando ai ragazzi la pillola dei 5 giorni dopo come un contraccettivo (d’emergenza?!), puntualizza però che può essere prescritta solo dopo un test di gravidanza dall’esito negativo. Posto che esista un test in grado di fornire un risultato in tempo utile, la domanda è: perché, se c’è in corso una gravidanza, la pillola non si può prescrivere? Forse perché tutti sappiamo (ma è scomodo dirlo) che l’effetto di queste pillole è abortivo e non semplicemente anovulatorio?
C’è proprio da ricominciare tutto. E si ricomincia dalla Verità, dalla Bontà e dalla Bellezza. Ecco di cosa hanno sete i ragazzi.
Buon lavoro ai buoni educatori.
  Non saltare! (Don't

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  • : RIABILITAZIONE POST MORTEM DI PADRE GINO BURRESI
  • : Riabilitazione post mortem di Padre Gino Burresi Firma la Petizione https://petizionepubblica.it/pview.aspx?pi=IT85976 "Sono dentro, donna o uomo che vive li nel seno di questa chiesa. Da me amata, desiderata e capita... Sono dentro. Mi manca aria, Aspetto l'alba, Vedo tramonto. La chiesa dei cardinali madri per gioielli, matrigne per l'amore. Ho inciampato e la chiesa non mi sta raccogliendo. Solitudine a me dona, a lei che avevo chiesto Maternità. E l'anima mia, Povera, Riconosce lo sbaglio di aver scelto il dentro e, Vorrei uscire ma dentro dovrò stare, per la madre che non accetta, Il bene del vero che ho scoperto per l'anima mia. Chiesa, Antica e poco nuova, Barca in alto mare, Getta le reti Su chi ti chiede maternità. Madre o matrigna, per me oggi barca in alto mare che teme solo di Affondare! Matrigna." Commento n°1 inviato da Giò il 2/04/2011 alle 14h27sul post: http://nelsegnodizarri.over-blog.org/article-la-chiesa-di-oggi-ci-e-madre-o-matrigna-67251291
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