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11 aprile 2014 5 11 /04 /aprile /2014 20:03

 

 

 

 

http://www.corriere.it/salute/neuroscienze/14_aprile_08/arte-rimandare-scritta-geni-d22c059c-bf1a-11e3-9575-baed47a7b816.shtml

 

 

 

 

 

Rimandare un compito, di un minuto oppure all’infinito, è un’abile arte in cui si applica una larga fetta della popolazione mondiale. Alcuni vi si abbandonano con gioia e senza sensi di colpa, altri cercano in ogni modo di combattere la tendenza con i metodi più strani (riusciti o meno). L’atto del procrastinare ha anche grandi mentori tra i nomi del passato: Alessandro Manzoni e il suo infinito ritardo nella pubblicazione dei Promessi Sposi ne sono un grande esempio, e si dice che Demostene, per obbligarsi a non rimandare la scrittura e lo studio, si rasasse metà del capo di modo da apparire ridicolo e non poter uscire, concentrandosi sulle sue orazioni.

  

 

Procrastinare, arte da impulsivi

Un gruppo di ricercatori americani della University of Colorado di Boulder ha cercato di collegare l’atto del procrastinare con la genetica, e mettendo alla prova un campione di persone ha scoperto che esiste un legame tra i geni e questa modalità comportamentale. La ricerca, pubblicata su Psychological Science, ha dimostrato come davanti al ritardare un’azione siamo tutti diversi, ma la tendenza è simile all’interno delle coppie di gemelli, e inoltre che chi non riesce a mantenere i suoi obiettivi in tempo ha anche la tendenza a essere impulsivo.

   

 

Un campione di gemelli

Per arrivare al risultato, i ricercatori hanno analizzato i comportamenti di 181 coppie di gemelli identici o omozigoti (con lo stesso DNA), paragonando i risultati sia all’interno del duo, sia con 166 coppie di gemelli fraterni (eterozigoti), ovvero con DNA differente. Il campione è stato interrogato attraverso questionari sull’abilità nel concludere i compiti e mantenere gli obiettivi prefissati nel tempo. Tra i gemelli intervistati, gli studiosi hanno notato una vasta corrispondenza tra la tendenza a procrastinare delle coppie di gemelli identici, meno presente in quelli eterozigoti. In più, tra i grandi procrastinatori del campione si nascondeva anche la più alta percentuale di impulsivi, segno che le due tendenze sono in realtà molto legate, nonostante all’apparenza il legame non sia così intuitivo.

 

Un’abitudine che i nostri avi non avevano

Procrastinare è, secondo alcuni psicologi, una tendenza «scoppiata» nei tempi moderni che l’uomo primitivo non conosceva. È aumentata nel tempo con l’abitudine - data dal lavoro, dallo studio, dalle abitudini personali - di porsi obiettivi a medio e lungo termine, a differenza del passato, quando i bisogni (la ricerca del cibo, di un riparo e così via) andavano esauditi e risolti in brevissimo tempo. E proprio i lunghi tempi fanno sì che ci si distragga più facilmente dall’obiettivo, che per chi è geneticamente più propenso a procrastinare, può significare non arrivare in tempo alla meta, o addirittura scordarla. Ma un legame col passato resta: i più grandi procrastinatori sono anche i migliori impulsivi, tanto che i ricercatori parlano di una sovrapposizione tra i due comportamenti. Il «rimandatore» aspetta a svolgere i suoi compiti, ma sfoga poi talvolta la propria irruenza e la voglia di fare con comportamenti impulsivi. Proprio come facevano i nostri avi.

 

► 4:18
www.youtube.com/watch?v=jkrOHFlOgZ414 Jul 2011 - 4 min - Uploaded by Cecilia Ceci Andreini
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7 aprile 2014 1 07 /04 /aprile /2014 03:54

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questa notte ho sognato di essere in una casa di montagna.

L'aria montana è notoriamente più salubre di quella cittadina e più rarefatta, meno umida, più benefica insomma per l'organismo.

Dentro questa casa c'erano due sacchi di immondizia rotti che emanavano cattivo odore, nauseabondi come i miasmi che soffocano le città.

Allora ho preso questi sacchi che mi ero portato dietro e dentro, da Roma, senza saperlo, perché si sono slegati dal mio corpo nottetempo, e li ho messi fuori della porta, dopo averli legati per bene, affinché non infettassero altre persone.

Rinvigorito dalla coscienza montana eccomi qui davanti a voi con qualche peso in meno sulla coscienza cittadina.

 

Riccardo Fontana

 

 

► 3:35
www.youtube.com/watch?v=d_TJFKnTomo29 Jul 2012 - 4 min - Uploaded by Eric Randall
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6 aprile 2014 7 06 /04 /aprile /2014 18:55

 

 

 

 

Lacci - 12mm Verde

 

   

  

 

Questa notte ho sognato una distesa di scarpe. Mi trovavo in un posto in cui giacevano per terra decine e decine di scarpe. Tra tutte queste scarpe dovevano trovarsi anche le mie da ginnastica coi lacci verdi. Non ricordo che luogo fosse quello, che richiedesse di togliersi le calzature.

Quando sono andato a cercare il mio paio, ho dovuto chiedere l'aiuto della guardarobista, poiché non riuscivo a trovare le mie scarpe. Ce n'era un paio con i lacci verdi ma erano scarpe da bambino. Qualcuno aveva, secondo me, scambiato intenzionalmente le mie da adulto con quelle da bambino. Ho pensato subito ad un furto e l'ho detto alla guardarobista, che comunque ha continuato a cercarle, però senza successo.

Ho cercato di interpretare questo sogno delle scarpe adulte sparite e delle scarpe bambine ritrovate.

Sono sulle orme della mia fanciullezza oppure ho perso la dimensione reale dei miei piedi ? 

O voglio sciogliere i lacci che legano la  lingua dei bambini balbuzienti ( sono un ex-balbuziente  ) o annodare quelli sciolti della mia spontaneità, perché l'estemporaneità non premia ?

 

Riccardo Fontana

 

   

 

► 3:44
www.youtube.com/watch?v=UyUfDl2N5ng9 Aug 2010 - 4 min - Uploaded by FedeSalvatoreChannel
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5 aprile 2014 6 05 /04 /aprile /2014 13:27

 

 

 

 

 

 

 

Questa notte ho fatto due sogni, ambedue avevano a che fare con l'acqua ma solo di uno dei due ho un nitido ricordo.

 

Il sogno tratta di un cambio di residenza, però non singolo bensì collettivo.

 

Era un edificio intero, il palazzo  ove risiedo, che doveva cambiare residenza.

 

A causa di una falla lo dovevano spostare in un altro luogo più sicuro.

 

Tante braccia lo spingevano e ogni tappa veniva conclusa con un segno di croce del condottiero, come ringraziamento che il palazzo non era caduto.

 

Io ero un osservatore e mi trovavo per strada, all'esterno del palazzo.

 

Non avevo alcuna parte attiva se non quella di guardare con apprensione la scena  e di stupirmi dell'impresa riuscita, anche se la nuova sistemazione della casa non era particolarmente felice, ma perlomeno la casa era salva.

 

Si dice che la fede sposta le montagne ma questa ha spostato  anche una casa, la mia casa.

 

Grazie a quanti vi hanno collaborato. 

 

 

Riccardo Fontana

 

 

► 3:29
www.youtube.com/watch?v=Y8fbqBJhb8c6 ott 2013 - 3 min - Caricato da xMusic

 

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2 aprile 2014 3 02 /04 /aprile /2014 21:36

 

 

 

 

http://archiviostorico.corriere.it/1995/febbraio/20/piacere_rubare_co_0_95022011412.shtml

 

 

 

 

 

 

Il piacere di rubare

 

Cleptomania: uno psichiatra belga ha studiato a lungo le possibili cause di questa voglia irrefrenabile di commettere furti e ha accertato che può essere solo un sintomo di altri disturbi. E propone un metodo di cura

 

Il ladruncolo va indirizzato al giudice o allo psichiatra? La questione non è facile da dirimere, e spesso entrambi vengono coinvolti nella valutazione di furti di poco conto, specie se ripetuti. Ci si potrebbe, infatti, trovare di fronte a un caso di cleptomania, la condizione per cui una persona apparentemente normale viene colta da un impulso irrefrenabile a rubare, impulso che si placa solo con il furto. Che cos' è  ? Gli psichiatri considerano la cleptomania uno dei fenomeni che derivano da un alterato controllo degli impulsi: chi ruba in continuazione, in pratica, viene assimilato a chi non può fare a meno di giocare d' azzardo e ai piromani. "Si tratta in effetti di disturbi molto diversi fra loro" spiega Paul Cozyn, psichiatria dell' Universita' di Anversa (Belgio), noto per i suoi studi proprio sulla cleptomania, ma si suppone che la causa sia identica. La perdita di controllo gioca un ruolo essenziale nel comportamento delle persone che soffrono di questi disturbi: sentono una voglia insopprimibile di fare qualcosa e l' impulso non cesserà , finché il furto, nel caso dei cleptomani, non sarà compiuto". Reato o malattia? Non si tratta solo di distinguere fra malattia e comportamento illegale: solo una piccola percentuale di persone, infatti, possono essere considerate veri cleptomani; molte altre soffrono di diversi disturbi psicologici di cui l' impulso a rubare è solo uno dei sintomi. "Gli esempi non mancano" dice il professor Cozyn. "Si va dal poliziotto depresso che ruba per distruggere agli occhi della società la propria immagine (una sorta di "suicidio sociale") alla ragazza anoressica che ruba pacchi di prodotti dietetici, al feticista che ruba di solito solo biancheria intima femminile: in questo caso sia l' oggetto del furto sia il fatto di rubare quell' oggetto danno alla persona un' eccitazione supplementare". Le cifre del fenomeno. Quanti sono i cleptomani? Non esistono stime accurate al riguardo; le cifre conosciute derivano dalle statistiche riguardanti i furti minori. Sembra che dal 4 al 10 per cento di tutte le persone schedate per tali illegalita' potrebbero nascondere una cleptomania. Numerosi ricercatori pensano che in realtà la frequenza di questo disturbo sia sottostimata, sia perché molte persone abilmente non si fanno catturare, sia perché difficilmente parlano con amici e familiari del loro problema, e una volta che sono in cura da uno psichiatra, lo negano. Si è sempre pensato che la maggioranza dei cleptomani fossero donne (circa il 75 per cento), ma la verità di questo dato, secondo molti psichiatri, è tutta da dimostrare. Gli uomini infatti hanno sempre avuto meno occasioni di furto al supermercato e se presi in flagranza raramente sono stati sottoposti a visita psichiatrica.

La cura. "L' unico modo per guarire dalla mania di rubare" spiega Cozyn " è obbligare la persona a un programma di autocontrollo. Bosogna che il malcapitato si renda conto che una serie di situazioni (per esempio una lite in famiglia) lo portano inesorabilmente all' ennesimo furto. Per riconoscerle deve abituarsi a un' introspezione continua, a valutare cioè  i propri pensieri e le proprie emozioni. Deve continuamente domandarsi: che cosa sto facendo? A che cosa sto pensando? E dovrà accettare che non si tratta di un automatismo, ma che egli stesso prende un certo numero di decisioni che lo portano al furto. E' necessario che la persona si responsabilizzi". Naturalmente tutto ciò dev' essere guidato da uno psichiatra esperto; non tutti usano il metodo di Cozyn: altri si affidano alla psicanalisi, nel tentativo di svelare un conflitto infantile che sia alla base del problema, oppure a farmaci antidepressivi. Quando la cleptomania è sintomo di un altro disturbo psicologico, bisogna risolvere quello.

 Ecco i criteri per definire il cleptomane: impossibilità di opporsi all' impulso di rubare oggetti di cui non si ha bisogno per un uso personale e che comunque non sono rubati per il loro valore; sensazione di forte tensione, che cresce prima di commettere il furto; caduta della tensione al momento del reato o sensazione di piacere; il furto non è commesso per esprimere collera o per soddisfare una vendetta; il furto non dev' essere la conseguenza di un disturbo del comportamento, o la manifestazione di una personalita' antisociale.

 

Sbriscia Emanuela

 

► 3:41
www.youtube.com/watch?v=ZmoV29GXTwk5 Feb 2013 - 4 min - Uploaded by shabj shabi
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1 aprile 2014 2 01 /04 /aprile /2014 21:01

 

 

 

http://www.malgradopoi.it/racconti/la-vita-in-un-minuto-racconto-maria-rosaria-selo

 

 

editing

 

 

 

La vita in un minuto

di Maria Rosaria Selo

 

La penna nella mia mano ha avuto un fremito, un’incertezza nel continuare a scrivere, ma la mente ordina e lei deve obbedire. Non è facile, ma ora il tempo è maturo per lasciare scritto, nero su bianco, ciò che accadde quella notte di tanto tempo fa.

Era al tramonto, l’ora in cui le ombre si allungano fino a diventare aguzze ed abiette forme inesistenti. In auto percorrevo la strada nella speranza di rientrare in fretta a casa. L’intensità del traffico, con i clacson e le frenate brusche, mi lasciava del tutto indifferente. Quella che si stava delineando non era una sera come le altre. Ero stanca, come sempre, ma quella vita l’avevo scelta io e non potevo incolpare nessuno se l’azienda mi teneva testa con i suoi molteplici impegni e le interminabili riunioni in ufficio.

Fabio mi incolpava d’aver sposato anche il lavoro. Ma erano state la responsabilità e la serietà ad avvilupparmi in quegli inevitabili incastri, che non mi concedevano più di respirare.
E Fabio aveva voglia a criticare! Io lo facevo anche per lui, per noi, per il nostro domani.
Il traffico andò snodandosi, ed io imboccai la salita. Era una sera diversa, si, lo era. Inconsapevolmente mi sfiorai il ventre ed il cuore accelerò il suo ritmo. Due battiti divennero quattro, perché dentro di me, ora, cresceva un bambino.
Due sentimenti contrastanti fecero a pugni, a mia insaputa.
Il primo era l’amore. Per me, per mio marito, per ciò che cresceva in me.
Il secondo era la paura. Per me, per mio marito, per ciò che cresceva in me.
Forse, mi dicevo, questa creatura arriva al momento giusto!
Ma sì… mi riposerò e rinsalderò il mio rapporto con Fabio…
Ultimamente lui è sempre irritato. Il lavoro che vacilla, le insoddisfazioni, e quegli sguardi nostalgici al sax, suo vero e primo amore, abbandonato per insicurezza, forse pigrizia, ma certamente incostanza.
Mentre formulavo questo pensiero, le note di ‘The bird’ di Charlie Parker, mi riportarono sul sedile dell’auto. Era la suoneria del cellulare che avevo impostato per Fabio.
“Oriana? Tesoro, dove sei?”
“Quasi sotto casa”
“Davvero? E come mai così presto?”
“Ti spiegherò dopo. Tu a che ora arrivi?”
“Stasera un po’ più tardi, ma non oltre le nove. A proposito, ho ritirato io la posta. Il portiere mi ha consegnato tutto stamane. Quindi stai tranquilla. La tua preziosa corrispondenza è in buone mani!”
“Va bene, ma non tardare molto. C’è qualcosa di cui vorrei parlarti.”
“Spero nulla di grave.”
“Appena sarai a casa lo saprai!”
Riagganciai senza aspettare una risposta, ma lo facevo quasi per abitudine. Lui lo sapeva bene, era il mio modo di fare.
Lentamente imboccai il vialetto di casa. Il cielo, carico di nuvole basse e pesanti, sembrava foriero di tristi presagi. Persino il palazzo mi trasmise un senso di inquietudine. Entrai velocemente nell’atrio, accompagnata solo dal ticchettio dei miei tacchi sul pavimento. Spinsi il pulsante dell’ascensore e respirai a fondo per calmarmi da un’ansia improvvisa, ma sapevo bene che le donne in attesa spesso venivano aggredite da una sorta di insopportabile depressione. Quindi razionalizzai ed infilandomi nella cabina, mi dissi che non avrei consentito alla mia creatura di cambiare ciò che in me era perfetto: l’equilibrio.

 

La casa mi accolse.
Chiusi l’uscio alle mie spalle, accesi la luci e gettai la borsa sul tavolo all’ingresso. Scalzai i tacchi ed a piedi nudi andai verso la cucina. Tirai fuori un prosecco e lo versai in un calice. Avevo giurato al medico di non bere e non fumare, ma lo avrei fatto dopo quella sera. Era stato un compromesso abbastanza insoddisfacente, ma inevitabile, almeno per il momento. Con il flute tra le mani, mi diressi in camera da letto. Mi spogliai, guardandomi nuda allo specchio. Di lì a poco sarei cambiata, ma era naturale. La gravidanza è un insolubile mistero, ma non beneficiare di quella esperienza sarebbe stato quasi come vivere a metà, ed io non avevo intenzione di lasciare per strada qualsiasi cosa fosse in mio potere di fare.
Guardai l’ora: le sette. Era abbastanza presto, quindi decisi di fare un bagno e preparare la cena. Ritornai nell’ingresso, recuperai la borsa e tolsi le scarpe dal pavimento. Fabio non sopportava il mio disordine e non mi andava di farlo irritare. Spensi le luci e mi diressi nuovamente nella mia camera. Presi dalla borsa il cellulare e lo posi sul letto. Sistemai i vestiti nell’armadio, diedi un’occhiata soddisfatta a quell’insolito ordine e mi infilai nel bagno.


Sali profumati, candele, le mie piramidi di quarzo ialino, ma un’oppressione nell’anima. Cos’era quel velo di tristezza che mi copriva ogni volta che non ero impegnata in qualcosa? Era il silenzio della casa? Forse avrei dovuto accendere lo stereo, di là in camera da letto. O era l’arrivo del destino? Guai a prendere consapevolezza della sua esistenza. Da quel momento tutta la tua vita è tra le sue avide mani. Il destino è solo beffardo, ironico, bizzarro, fatale. Tutti aggettivi poco interessanti. Il destino non è mai intelligente o seducente. Eppure è il futuro, semplicemente quello. Presi fiato e mi immersi. Rimasi sott’acqua qualche secondo e riaffiorai. Ed ancora quel silenzio, interrotto solo dal rintocco del campanile della chiesa. Passarono alcuni brevi minuti, quando mi parve di cogliere un rumore di là, nella stanza di fianco. Lentamente mi voltai in modo da guardare verso la porta. Mi sporsi dalla vasca. I capelli gocciolarono e l’acqua spense una delle candele. Dritta come un fusto, restai ad ascoltare nel silenzio. Ancora un rumore secco, preciso. E l’ansia di nuovo allo stomaco. La cosa più naturale sarebbe stata quella di pensare a Fabio, ma io sapevo che non era così. Lui mi avrebbe chiamata, o messo su la musica. C’era un intruso di là, non mio marito. In silenzio uscii dalla vasca. I miei piedi incerti toccarono il pavimento e stridettero sulle mattonelle. Rimasi per un istante davanti alla porta con la paura di guardare, ma dovevo sapere. Quando mi chinai a spiare nella toppa, il terrore mi attanagliò l’anima. Nella stanza, di fronte a me, c’era un uomo con il volto coperto da un passamontagna. Portava i guanti e si muoveva agilmente. Tirava via i cassetti, spostava i soprammobili e sfogliava tra le carte. Cercava qualcosa e la cercava dappertutto. Dalla toppa potevo vedere i suoi movimenti. Ero certa che credesse d’essere solo in casa. Passava da una stanza all’altra, con una torcia tra le mani e io benedissi la precisione di Fabio, che mi costringeva a lasciare tutto in ordine e al buio. Ora, nel mio nascondiglio, respiravo a stento. Tremando mi accucciai al lato della porta. Avevo poco tempo per pensare. Il bagno era ricavato all’interno, quindi non potevo chiedere aiuto. Non avevo forbici, né alcun tipo di arma e se avessi chiamato qualcuno con il cellulare, sicuramente lui avrebbe sentito. Ma in quell’attimo mi resi conto di non avere il cellulare con me. Sgranai gli occhi sgomenta e riguardai attraverso la toppa.
Il telefonino era sul letto, lì dove lo avevo lasciato. Dall’angolo di stanza che riuscivo a vedere, osservai il luccichio del display. E fu allora che l’intruso entrò nella camera da letto. Paralizzata, come un segugio me ne stavo acquattata, con il cuore impazzito che se ne fregava di obbedire alla mia calma. Dovevo aspettare, non potevo fare altro. I minuti sembravano ore. Sul mio corpo le gocce d’acqua si mischiarono al sudore e fui scossa da brividi di paura.
Calma Oriana… stai tranquilla… ora andrà via… Dio mio, fa’ che se ne vada…
Stai buona… resta in silenzio… pensa al bambino…
Chiusi gli occhi e attesi. Mi mancava l’aria. Temevo che il vapore dell’acqua uscisse, rivelando la mia presenza allo sconosciuto. E sussultai, quando il vento fece sbattere una finestra in fondo al corridoio. Mi tirai su e guardai di nuovo. L’uomo sembrava sparito. Tesi nuovamente l’orecchio. Nulla. Lentamente il cuore riprese il battito normale e la speranza fece capolino.


Attesi in silenzio.
Ogni attimo sembrava un’eternità.
Pian piano mi alzai. Tremando raccolsi l’accappatoio e lo infilai. No, non sarei uscita. Avrei aspettato anche tutta la notte, ma non mi sarei mossa dalla mia prigione. E solo allora avvertii il freddo e sentii scorrermi le lacrime sul viso. Disperata, allacciai le braccia intorno al corpo. Frammenti di vita mi passarono davanti e girarono vorticosamente, fino a nausearmi. Io, da sempre sicura di me, certa delle mie scelte, consapevole del mio percorso, semplicemente, non avevo mai considerato che la mia ‘perfetta’ vita potesse finire in un minuto. E sentii tutta la spocchiosa sicurezza piombarmi addosso come un castello di carte. Ero sola, disarmata, prigioniera nella mia stessa casa…
…ma cos’era quel ronzio?
Oh mio Dio… No!
Dalla toppa osservai il cellulare sul bordo del letto. Si mosse vibrando silenziosamente… e le note di The Bird invasero la casa.
Fabio!
Fu un attimo. Sbucato dal nulla mi ritrovai davanti l’intruso. Osservò il cellulare e poi il mio nascondiglio. Sono certa che i nostri occhi si incrociarono in quell’istante e io, nonostante il buio, vidi uno scintillio maligno nei suoi. Come una bestia allargò le braccia e si precipitò verso di me. Mi misi di spalle alla porta tentando di bloccarla, ma lo sconosciuto piombò su di essa con una violenza tale che un urlo mi uscì dalle labbra. La porta vacillò. A spallate, sempre più violente, accompagnandosi nello sforzo da un suono gutturale intenso, come quello di una belva inferocita, lui, continuava a buttare giù la porta. E non è vero che non si pensa a niente in quegli attimi. Io ero in preda a mille pensieri. Escogitavo una difesa, volevo proteggere il mio bambino e pensavo a Fabio, al suo sorriso, alla speranza che arrivasse in tempo, ma più di ogni altra cosa, volevo farla finita, il più in fretta possibile. La serratura saltò ed io caddi all’indietro. Lo sconosciuto entrò ansimando ed io indietreggiai terrorizzata. Puzzava di sudore. Il suo tanfo mi arrivò dritto alle narici. Era tutto un incubo. Spingendomi sui gomiti arrivai al bordo della vasca e mi alzai. Diedi un urlo disperato per tentare di spaventarlo, ma lui avanzò determinato. E allora io lo aggredii, tentando il tutto per tutto, tirando calci e pugni, appigliandomi con le unghie al suo giubbino, ma lui con un manrovescio mi alzò di qualche centimetro, facendomi di nuovo cadere a terra, un metro più in là. E senza esitare mi fu addosso. Le sue mani strinsero il mio collo con una violenza inaudita. Sentivo la gola rompersi come se fosse di vetro e l’aria iniziò a mancarmi. Dagli occhi scesero calde le lacrime e mentre i miei piedi sbattevano convulsamente per terra, le mani tentavano disperate di liberarsi da quella stretta che si stava portando via la mia vita.


Era finita. Le mie braccia lasciarono quelle dell’assassino e caddero mollemente a terra. I miei occhi guardarono il soffitto. Oltre quelle mura c’era il cielo, sapevo che era lì, ma non mi apparteneva più, ormai. Il braccio ebbe un tremito e sfiorò qualcosa di fresco, familiare. La piramide di quarzo era caduta accanto a me nella colluttazione ed ora la mia mano la toccava. Un barlume improvviso schiarì l’ultimo istante della mia vita. Strinsi la piramide e con un unico gesto rapido colpii violentemente la gola dell’assassino. Un fiotto di sangue schizzò sul mio accappatoio e lui mollò la presa. L’odore pungente del ferro si mischiò a quello del suo sudore ed io, tossendo e respirando a bocconi, fui presa da un’ incontenibile nausea. L’assassino si strappò via la punta dal collo e un rantolo uscì dalle sue labbra. Tentava di tamponare la ferita, ma il sangue continuava a spillare copioso sulle sue mani. Scivolai via da lui rapidamente. Ero terrorizzata, ma avevo ora una speranza. Calpestai la porta del bagno in pezzi, noncurante delle schegge che mi entravano nei piedi e, senza neanche voltarmi a guardare l’assassino, non ebbi alcun dubbio su cosa fare. Afferrai il cellulare, e formai il 113. Gli agenti sarebbero arrivati subito. Ora dovevo solo rintracciare Fabio, prima possibile. Mentre lo chiamavo mi sfiorai il ventre. Avevo salvato me stessa e la mia creatura e non provavo alcuna pietà per il mostro che voleva portarsi via le nostre vite. Al primo squillo Fabio non rispose e non lo fece neanche al secondo. Poi arrivò il terzo squillo.

 

Dal bagno ‘Satisfaction’ la suoneria che Fabio aveva impostato per me, risuonò sempre più forte.
Dapprima non compresi cosa stava succedendo e un sorriso ingenuo mi spuntò sul viso. Fabio era di là ed io non l’avevo sentito? Ma poi un pensiero orrendo sfiorò la mia mente.
Come ipnotizzata seguii il suono e mi ritrovai davanti alla stanza da bagno. Dalla tasca dell’assassino il cellulare di Fabio squillava e squillava…
Il telefonino mi cadde di mano rompendosi sul pavimento. Il suono si interruppe ed io rimasi ad osservare sconvolta quel corpo senza vita. E mi appigliai al dubbio. Forse Fabio era stato rapinato, o forse l’aggressore aveva trovato il suo cellulare per caso? Tutto era lì, davanti ai miei occhi. Non dovevo fare altro che tirare via il cappuccio. Vedere, capire.
Tremando mi avvicinai al corpo.
Si… la statura è la sua… ma no, non può essere…
Esitando, guardai stordita quell’essere davanti a me. Mi inginocchiai e poggiai la mano sul passamontagna.
Non puoi fare altrimenti… avanti… guarda… ti voleva morta!
Un gesto rapido, e glielo sfilai.
Gli occhi di Fabio, all’indietro come se fossero fuori dalle orbite, non potevano mentire. Un urlo strozzato mi sfuggì dalle labbra. Sconvolta indietreggiai senza staccare gli occhi da lui, dall’uomo che diceva di amarmi e che senza esitazione aveva tentato di uccidermi. E per cosa? Per avere i miei soldi? E mi sorpresi ancora osservando il cappuccio madido di sangue. Lo aveva indossato per vigliaccheria, per la paura di affrontarmi a viso aperto? O per pietà, per evitarmi di scoprire nell’amante l’assassino?
Non lo avrei saputo mai. Ma la cosa che rimarrà per sempre vivida nella mia mente, la più agghiacciante di tutte, furono le sue labbra, livide e senza vita, che accennavano un ghigno malvagio, segno palese del lato sinistro del suo cuore.


Ed ora, tesoro mio, passata la sbronza dell’adrenalina, passato più di un anno dall’accaduto, mentre ti osservo con amore, nel caparbio tentativo di infilare un cubo in una forma triangolare, io scrivo lasciandoti custode della verità, affinché tu possa forgiarti come me, possa essere un domani forte, come me, ed andare avanti nonostante il dolore, nonostante le incomprensioni e nonostante le lotte di una vita difficile. Ma, soprattutto, mi aspetto che tu sia preparato ad affrontare un futuro che non dimenticherà mai che tu, figlio mio, sei stato generato da due assassini.

 

 

► 4:30
www.youtube.com/watch?v=EC_ZY7dMgoU18 Sep 2013 - 5 min - Uploaded by aza1926
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31 marzo 2014 1 31 /03 /marzo /2014 18:21

 

 

 

 

http://www.mondodiholden.altervista.org/post.php?id=290

 

Borderline: il dolore incompreso

Borderline: il dolore incompreso
di fernanda zanier

 
È passato un po' di tempo da quando ho iniziato ad elaborare le mie riflessioni sul dpb.
All’inizio i passi erano incerti, capire in che direzione andare, che desse un senso a questo percorso di conoscenza, utile a quanti ne soffrono e come dico spesso, a quanti li amano.

Non ho mai spiegato il titolo: il dolore incompreso.

Non è la somma delle innumerevoli croci comportamentali che il border deve portare. No, la sofferenza è altra, ed è lo stare continuamente in bilico tra delirio e lucidità.
È impazzire e rendersi conto di esserlo stato un attimo prima, senza poter fermare il fiume di rabbia e frustrazione che spesso lo sovrasta, che come una piena distrugge tutto nel suo percorso.
Basta un niente, una situazione frustrante e tutto ricomincia.
Nonostante il percorso terapeutico, nonostante i farmaci, gli sforzi, nonostante tutto.
Ed ogni volta egli si ritrova ai piedi della montagna e deve ricominciare a credere di potercela fare, di arrivare alla vetta, alla serenità di una vita priva di paure. Ad una vita nella quale lui possa credere in se stesso e bastarsi.
Lo psicotico ha un grande “vantaggio” rispetto al border, è sempre nel delirio. Non deve fare i conti con gli eventi distruttivi da lui provocati nelle relazioni. Lo psicotico ha il suo mondo e non lo condivide con nessuno.
Il border è costretto a tornare, e nel ritorno, dopo il tonfo per terra, si ritrova pieno di sensi di colpa, vergognoso a chiedere scusa. Ma scusa di cosa? Di avere sofferto come un cagnaccio senza tana?
Camminando avanti e indietro senza trovare pace al delirio? Di questo deve chiedere scusa, o di essere tornato alla realtà?
°°°A sentirsi un niente, perché dopo, rimane solo la consapevolezza di essere stati in un posto dove la rabbia trova motivo di essere: nel posto dei temibili ricordi, che richiedono di essere pacificati. Richiedono il perdono.
Ma la rabbia regna.
Questa è la vita del borderline. In bilico.
Se ci pensate bene il border chiede continuamente di essere perdonato. Insaziabilmente, come se dovesse espiare chissà cosa. Confonde il perdono con l’essere amato.
Amami perchè ho peccato..
….Ma quando riesce a trattenere la lama che vorrebbe calare, anche solo un poco, che grande vittoria. Che rivincita su se stesso. I passi divengono sicuri, le gambe ben salde.
La vetta, vicina.

Sulla sofferenza mentale non si parla mai abbastanza, libri su libri, il male oscuro di qua, di là , su, giù. Ma lo avete mai chiesto che cosa sia, o cosa sia stato ad un che lo ha provato?
A quello che meditava sul terrazzo.” Vado giù o resto ancora un po’?..”.
Ai finti sani del sabato sera che devono calarsi di tutto pur di non sentire quello che hanno dentro: il nulla.
C’è tanto disagio attorno a noi, senza essere dei borderline, una sofferenza pudica, che con classe si cela ad occhi indiscreti.
La persona con disturbi relazionali, beh lo dice il termine stesso: relazionali. Quindi si trattava di una relazione all’origine dei successivi disturbi. Chi ha deciso in quella relazione i ruoli, che si giocheranno nella vita adulta del border. Il border? No, non credo proprio.
Ma ogni borderline ha la sua storia ed in comune con la categoria credo abbia solo quella malefica predisposizione innata a regredire per rispondere agli stimoli dell’ambiente con risposte emotive, affettive, primitive, Dove l’oggetto è ancora scisso in buono o cattivo, eternamente.
Dove la cognizione ed il ragionamento che dovrebbe fondere le parti scisse è inesistente.
Credo davvero vi sia una predisposizione innata a quanto detto sopra, diversa per persona; tale predisposizione porterà alla probabile, o non, comparsa del dpb, compresa la gravità dei sintomi.
La questione si fa difficile , quando eventi ambientali favoriscono, perchè potrebbe anche non essere così prepotente e restarsene nascosto e quieto. In latenza.
Le relazioni, i traumi, le perdite affettive.
Sfortuna.
Tutto qua, alla fine sono solo una serie di fattori casuali sfortunati, la famiglia come prima cosa, od eventi traumatici, che facendo crollare l’autostima permettono l’emergere del disturbo. L’io si indebolisce e parte dell’autocontrollo perso. In questa condizione prevale uno stato costante di angoscia, accompagnato da ansia.
I ricordi si sommano e si fondono. I ricordi sono emozioni.
Una persona con-fusa di ricordi avversi e frustranti, non riuscirà più a cogliere uno stimolo neutro, se non come un nuovo e probabile evento frustrante.
Perché l’evento nel border, essendo elaborato principalmente a livello emozionale non potrà che essere rivestito da tracce menstiche emozionali passate.
Se la capacità logica avesse il suo spazio naturale d’azione le cose sarebbero diverse, ci sarebbe capacità di creare per se stessi un mondo diverso senza dovere andare nel delirio emozionale psicotico.
Invece in questa condizione, quando un oggetto relazionale incontra il mondo border, non vi sarà spazio altro che per la relazione simbiotica fusa con l’oggetto, divenendo automaticamente incapace d’ agire nella realtà per modificarla in modo da avere una vita soddisfacente.
L’oggetto diviene tutto il mondo del borderline, aria e cibo, ed a tale mondo egli deve conformarsi, continuamente, dato che le emozioni per loro natura sono fluttanti d’intensità. Salgono, scendono, determinando delirio o depressione.
Il borderline a differenza dello psicotico patisce, sta molto male per la paura di perdere a causa sua l'oggetto amato, lo spossa di energie vitali. Lo rende sempre più regredito, la scissione in buono-cattivo sempre più automatica. Il disturbo non è costante e con il tempo,e se non curato, si aggrava.
Un altro punto critico: la tendenza automatica /difensiva /alla regressione e poi via... nel delirio infernale.

 

► 4:51
www.youtube.com/watch?v=7t8aQLvp_PM11 May 2008 - 5 min - Uploaded by fab3r1968



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30 marzo 2014 7 30 /03 /marzo /2014 13:24

 

 

 

 

http://www.repubblica.it/cronaca/2013/06/14/news/manconi_io_quasi_cieco_e_la_mia_vita_tra_le_ombre-61047640/

 

 

 

 

Luigi Manconi: io, quasi cieco
e la mia vita tra le ombre

 

"Io, senatore diventato cieco, non so che faccia abbia Obama, ma provo a ridere del mio handicap"

"Per esempio, io non so che faccia abbia Obama. Nel 2008, quando venne eletto, non ero già più in grado di memorizzarne il volto. Direi che ha una testa ovaloide. È così?". Mentre parla, non ti centra, guarda un po' altrove. "Anche Giovinco, per dire, eroe della mia epopea sportiva. È venuto dopo, e io non so immaginare i tratti del suo viso, né riconoscerne movenze e traiettorie sul campo".

"Tutto quello che non ho filmato nel cervello prima della mia patologia, mi è visivamente sconosciuto".
Luigi Manconi, 65 anni, sardo di Sassari, senatore del Pd e fresco presidente della Commissione per i Diritti Umani, oltre a un altro sacco di cose, dalla sociologia alla militanza politica fino a una conoscenza dottorale in musica leggera e popolare, non vede praticamente da 7 anni e non ne ha mai parlato. Per pudore, forse, o per volontà di rimozione. Resta il fatto che, anche se la definizione clinica è "ipovedente", per la Asl è un "cieco civile", con un "residuo visivo non superiore a un ventesimo" all'occhio sinistro e zero al destro. In un parlamento di non larghissime vedute, lui è l'unico a non vederci sul serio. Ma non porta il bastone, né gli occhiali scuri, gira spesso da solo, attraversa la strada come un pazzo. Non che la cecità per Manconi sia un segreto da celare, ma neanche un handicap da esibire. "Lo dico a quelli con cui entro in contatto, molti lo apprendono all'improvviso. Di solito, mi danno una pacca lieve sul braccio e mormorano: scusa, non sapevo. Scusa di che? Io sono più cose: politico, docente universitario, padre di tre figli. E c'è Bianca (Berlinguer, direttore del Tg3, ndr). In più ho anche un handicap. Anche, capisce. Handicap che, oltretutto, posso affrontare con i privilegi di classe e di censo che comporta la mia condizione sociale". Suona un telefono. Le assistenti che gli danno sei occhi, le due Valentine (Calderone e Brinis) e Cecilia (Aldazabal), sono fuori dalla stanza per discrezione. Lui raggiunge disinvolto l'apparecchio e risponde, poi si sdraia con la faccia sulla tastiera per comporre un numero. Sulla scrivania, fogli di appunti scritti con grafia enorme. Per leggerli, li schiaccia contro l'angolo dell'occhio sinistro, l'unico da cui filtra un micro raggio di visione. Poi torna a sedersi e mi dice: "Lei porta una camicia con le maniche rimboccate, un gilet, visto che non sembra tipo da panciotto, ed è un peccato, e ha un blocco a spirale. Il viso non so". Vede delle ombre? "No, è come se fosse tutto sfumato".

Quando tutto ha cominciato a sfumare?
"Già dal 2005 sapevo del glaucoma, che si sommava a una forte miopia, a un distacco della retina, e a tanti altri guai dei miei occhi. Ma non immaginavo un peggioramento tanto rapido".

Ricorda il momento del non ritorno?
"Ho una totale, e addirittura suicida ignoranza del mio corpo, e non riesco a collocare con precisione quel momento. So però che è irreversibile. Allo stato attuale, neanche le staminali, dice il professor Mario Stirpe che mi ha in cura, potrebbero invertire il processo".

Quando le accadde? Non può non esserci l'istante preciso in cui la vista svanisce e te ne rendi spaventosamente conto.

"Novembre 2007, credo. Ero sottosegretario alla Giustizia e alla Camera dovevo dare il parere del governo su emendamenti e mozioni. Da un po' mi ero accorto che la situazione del mio visus si stava aggravando, così avvisai il presidente di turno, Giorgia Meloni, che avrei potuto avere delle difficoltà. Cominciai, ma da lì a poco mi accorsi di non riuscire a leggere neanche mezza riga. Mi venne in soccorso un funzionario, suggerendomi le parole, ma io faticavo a ripeterle. L'opposizione prese a rumoreggiare. Quando la protesta si fece più vivace, mi rivolsi all'aula: "Per un problema di salute non sono più in grado di proseguire". Da quel momento non sono stato più capace di leggere un testo, né gli appunti per i miei interventi, che curavo maniacalmente. Decifro a malapena qualche riga, scritta a mano in grandi caratteri".

Lei, una persona che vive di parole scritte, colpita al cuore della passione. Come reagì?
"Qualcuno mi considera un depresso. Ed è possibile che questo sia un tratto del mio carattere che allora si accentuò per un breve periodo e che ancora, occasionalmente, si manifesta. Per converso, ho accentuato il mio iperattivismo e l'agitazione psicomotoria di tante iniziative, parole, scritti".

Conseguenze pratiche?
"Giro con un fascio di contanti come un camorrista perché non posso usare il bancomat. Io che sono titolare di una moltitudine di cravatte, e che me ne regalai una di Bardelli il giorno del mio ventesimo compleanno, facendo una follia, appena espulso dalla Cattolica di Milano e senza una lira, adesso corro rischi terribili con gli abbinamenti. Mi aiuta spesso mia figlia Giulia, ma prima era una scelta gelosamente mia".

Passando a mutazioni più traumatiche?
"Prima leggevo 6 quotidiani al giorno in due ore. Li ho sostituiti con 6 rassegne stampa radiofoniche più tre gr. Comincio alle 6.30 con Radio1 e vado avanti fino alle 9.30 con Terza pagina di Radio3; in mezzo, l'imperdibile Massimo Bordin su Radio Radicale. Va molto peggio con i libri: mi vengono letti i capitoli essenziali di quelli scientifici, sociologia e politologia, e ne apprendo il succo. Ma la narrativa e la poesia sono la vera privazione. Mi hanno appena regalato un Meridiano di Amelia Rosselli. So che è lì e non posso farci niente. E abbiamo un bellissimo quadro tutto bianco di Gianni Dessì: per vederlo, devo toccarlo con le mani. Va un po' meglio con i film: mi attacco il lettore dvd all'occhio sinistro e qualcosa riesco a seguire. Con Django di Tarantino sarà dura perché c'è tanta azione, ma con Amour di Hanneke, meravigliosamente parlato da Trintignant ed Emmanuelle Riva, è andata bene".

Mai pensato di ricorrere a strumenti che agevolano la vita dei ciechi?
"Ho 65 anni, trovo più faticoso apprendere nuove tecniche piuttosto che farmi aiutare all'interno di "A buon diritto", che ho fondato nel 2001 e dove mi sento a casa".

L'Italia è un Paese che sta attento ai ciechi?
"Vent'anni fa, lessi un'indagine Istat che quantificava il numero dei portatori di handicap. Ci scrissi un saggio: Cinque milioni di disabili e il predellino del tram di Milano. Scalini altissimi, un ostacolo insormontabile per portatori di handicap, donne incinte o con passeggino. Oggi, prendere un treno, specie se regionale, comporta le stesse difficoltà".

In Senato invece...
"C'è un cortile interno, che avrò fatto centinaia di volte. Mi ero scordato che nel mezzo si trovano due gradini e così, tornatoci quest'anno, sono incespicato pericolosamente. Ho segnalato a un assistente parlamentare che, per legge, su tutti i gradini va tracciata una striscia nera. Si è scusato, l'ha fatta mettere e mi ha raccontato di quando anche Andreotti, coi suoi passettini, rischiò di cadere proprio lì, ma lui, l'assistente, si buttò e lo raccolse al volo, cosa che gli valse la prima nota di merito".

Lei ha una vita politica insolita. A parte l'antica militanza in Lotta Continua, è stato portavoce dei Verdi, con dimissioni date immediatamente dopo la sconfitta alle Europee del '99, sottosegretario di Prodi, senza essere parlamentare, fino al 2008. In mezzo c'è l'attività di "A buon diritto", che, tra l'altro, ha reso pubblico lo scandalo di Stefano Cucchi. Come mai, dopo 12 anni, il Pd l'ha candidata?
"Non spetta a me dirlo. Credo che qualcuno si sia ricordato che già nel '95 presentai il primo disegno di legge sulle unioni civili e nel '96 il primo sul testamento biologico. Persino in politica, talvolta questo può contare".

Che differenze nota con le altre legislature che ha vissuto?
"Oggi, sia perché un qualche rinnovamento in effetti c'è stato sia perché le larghe intese hanno modificato il quadro, tutto appare più difficilmente riconoscibile e classificabile: le dislocazioni politiche e le opzioni individuali. Persino la distinzione tra maggioranza e opposizione risulta più sfumata".

E sul piano personale?

"Politicamente io mi definirei un radicale di sinistra estrema, tuttavia sempre interessato a trattare le questioni intrattabili e, se possibile, a governarle. Comunicando assiduamente, parlando, incontrando. Per esempio, passando molto tempo nei settori dell'aula dove siedono i miei avversari politici. Ecco, se devo discutere di libertà religiosa col valdese Malan, del Pdl, o di unioni civili con Bondi, devo prima chiedere all'assistente se si trovano in aula, poi farmi accompagnare da loro o chiedere loro di raggiungermi; e così con 5 Stelle".

Qualche volta riesce a ridere della sua disgrazia?
"Spesso. Pensi che il primo giugno ho presentato a Cremona, in piazza del Duomo, il mio La musica è leggera, con Maurizio Maggiani, altro ipovedente. Al termine, lui dice: io e Luigi non possiamo salutarci con un "ci vediamo un'altra volta", perché non ci vediamo proprio. Poi attacca una canzone popolare del primo Novecento, che fa così (Manconi si mette a cantarla, con bella voce bassa ben temperata, ndr): "Son cieco e mi vedete /devo chieder la carità/ho 4 figli, piangono,/ del pane non ho da dar.//. Noi anderemo a Roma / davanti al papa e al re / noi grideremo ai potenti / che la miseria c'è"".

Come fa a prenderla così?
"La Chiesa parla di stato di grazia, un qualcosa che ti offre risorse impensabili per affrontare circostanze particolarmente dolorose o comunque gravose. L'ho sperimentata su di me e, per esempio, sui familiari di vittime di ingiustizie atroci. Ilaria Cucchi ha avuto il bene di questa grazia, nonostante tutto".

 

(14 giugno 2013)

 

► 3:57
www.youtube.com/watch?v=20l6rQ5tNmA6 Feb 2014 - 4 min - Uploaded by Cinema Andrea's Llacza
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30 marzo 2014 7 30 /03 /marzo /2014 13:03

 

 

 

 

http://www.bergamonews.it/cronaca/grazie-ai-loro-cani-guida-due-non-vedenti-si-conoscono-e-si-sposano-187484

 

 

Tutto ha avuto inizio durante due settimane in cui la coppia di non vedenti ha portato i loro rispettivi Labrador Retrievers a un corso di formazione per cani guida. 
Grazie ai loro cani guida
due non vedenti
si conoscono e si sposano
Sposi

 

 

E vissero felici e contenti. Grazie ai loro cani. Claire Johnson e Mark Gaffey si sono sposati e a far nascere il loro amore sono stati i loro cani guida. Tutto ha avuto inizio durante due settimane in cui la coppia di non vedenti ha portato i loro rispettivi Labrador Retrievers a un corso di formazione per cani guida.   

Venice e Rodd sono subito diventati inseparabili, un vero e proprio colpo di fulmine a quattrozampe. Un rapporto che ha permesso a Claire e Mark di conoscersi meglio e,visto che vivevano solo a un chilometro di distanza, di frequentarsi. Dopo 11 mesi di frequentazione , di caffè e passeggiate insieme, i due si sono scoperti innamorati e hanno deciso di sposarsi.

«Sono certa che i nostri due cani guida ci hanno fatto conoscere e ci hanno aiutato a innamorarci. E proprio come loro siamo diventati un’anima sola» racconta la sposa al Mirror.   

La proposta di matrimonio è arrivata con un messaggio nel giorno di San Valentino: «Se mi sposi, posso rendere il tuo mondo più felice» le ha scritto Mark. E così la scorsa settimana la coppia è salita all’altare per unirsi in matrimonio, ovviamente accompagnati da Venice e Rodd, molto di più che semplici cani guida. 

 

► 5:12
www.youtube.com/watch?v=MY_c0c6BaYg19 dic 2010 - 5 min - Caricato da grigio2
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30 marzo 2014 7 30 /03 /marzo /2014 11:43

 

 

Cari lettori e care lettrici, vi ho già detto che da quando ho conosciuto qui sul blog Francesca Misseri, penso e ripenso a come sarebbe la mia vita se diventassi cieco.  Mi sento molto vicino a Francesca, è bellissima la lettera che ha scritto a Padre Gino Burresi. Francesca,  torna ad allietare le pagine di questo blog, perché ci arricchiscono la vita.

Riccardo Fontana

 

http://www.ladige.it/articoli/2012/10/11/cieca-vent-anni-mia-vita-normale

 

Io, cieca da vent'anni  e la mia vita normale

 

postinghelTRENTO - Sono solo undici i casi accertati in tutta Italia di questo raro disturbo visivo che porta alla cecità, che si manifesta tra i 3 ed i 5 anni di vita ed è incurabile. E tra questi anche la quarantenne roveretana Renata Postinghel. A lei, la diagnosi, arrivò nel 1992, quando di anni ne aveva già 20. «Sono nata perfettamente vedente - racconta la donna - ma durante una visita oculistica di routine alla scuola elementare mi venne riscontrato dell'astigmatismo. A 8 anni iniziai ad avere la visione doppia, a 15 riuscivo a vedere solo ombre e luci. Finché, a 18 anni, scomparve tutto. Rimase solo il vuoto, il nulla. Totale e definitivo. Il mio è stato quindi un passaggio graduale, dalla visione del mondo alla cecità. Solo dopo molte ipotesi di diagnosi e vari viaggi, anche all'estero, si riuscì a dare un nome alla mia malattia. E a capire che arrivava dal ramo paterno della mia famiglia, dove già in passato si erano verificati alcuni casi di cecità a parenti. Io sono la sesta di sette tra fratelli e sorelle, ma nessuno porta gli occhiali. Ci ho pensato io per tutti!».


Eppure Renata ha dei bellissimi occhi, che parlano da soli mentre affondano in quelli dell'interlocutore, raccontando - tra un sorriso ed una battuta - anche di tanta rabbia. Perché fu quella la prima reazione ad una sofferenza che iniziava a bombardare senza pietà il mondo colorato ed allegro di una ventenne.

Cosa accadde dopo aver saputo di quale malattia si trattava? «L'istinto protettivo di mio padre avrebbe voluto tenermi a casa - ricorda la donna - Mia madre invece, donna pratica e determinata, mi spedì a Padova per studiare fisioterapia. Qui iniziai a frequentare dei corsi di autonomia per non vedenti, per imparare a (ri)diventare padrona della mia vita. A partire dalle cose più semplici, del quotidiano, come la cura della propria persona, degli ambienti. Fino all'uscita in solitaria negli spazi urbani. È stato allora che mi sono avvicinata alla scrittura Braille. Prima, finché lo potevo fare con i miei occhi, leggevo molto. Poi - per forza di cose - sono passata ai libri per non vedenti. Ora, per me, legge Luca, mio marito. O Anna, che sta imparando a scuola. A 21 anni, iniziai a lavorare come massofisioterapista all'ospedale di Santa Maria del Carmine, a 24 andai a vivere da sola. Non ho mai accettato di dipendere dagli altri, soprattutto dopo la cecità: ho avuto attorno a me persone che dicevano che ero in grado di farcela, ripetevano che io - quando voglio riuscire in qualche cosa - riesco. Ci ho creduto ed è stato proprio questo che mi ha aiutato a reagire alla malattia». La fortuna di avere persone comprensive e stimolanti accanto, assieme a determinazione e coraggio però alle volte non bastano. Ci sono delle barriere difficili da abbattere. «Le prime sono date dai luoghi comuni - spiega Renata - mi fanno ridere ad esempio le persone "normali" che, in presenza di una disabilità, si sentono in imbarazzo. Le difficoltà reali vengono invece dal mondo creato solo per chi può vedere. Come la tecnologia, che dovrebbe semplificare la vita ma che, per assurdo, a noi la rende più difficile. I touchscreen o gli avvisi luminosi privi di segnalatori acustici (come il numero per la fila alla Posta) per esempio, a noi sono preclusi. Sono piccole cose, insignificanti per chi ci vede. Per noi sono invece dei limiti».


Mentre parla, gli occhi di Renata guizzano, si fermano, tornano a posarsi negli occhi altrui. Sembra impossibile che dentro ci sia solo il vuoto. «C'è il niente, è vero, ma ci sono anche i ricordi della mia vita da vedente, soprattutto i volti delle persone. E poi i colori. Ricordo poco di me stessa, di come sono fatta, il mio viso. Se potessi tornare ad avere il dono della vista, anche solo per un'ora, so già cosa farei: mi guarderei per un bel po' allo specchio, poi guarderei Anna ed Emma, e mio marito. Per vedere se corrispondono alla percezione che ho di loro, che non ho mai visto se non con il tatto e l'udito. Riesco a riconoscerli anche dal respiro, dal loro modo di camminare. Come ha detto Anna, la mia vita senza la vista è del tutto normale: certo, non guido, non leggo la posta o il menù in pizzeria, mi muovo con il bastone nei luoghi sconosciuti, non faccio la spesa. Ma, a parte questo, conduco una vita senza limiti».

Prosegue Renata Postinghel: «Mi piace molto cucinare. In casa ogni cosa ha il suo posto, tutto è lineare. Le bambine sono ordinate: sanno che se lasciano qualcosa in terra c'è il rischio che io lo calpesti o ci inciampi. I vestiti negli armadi sono divisi in base ai colori. Come li distinguo? Ne percepisco la consistenza. Così come percepisco la presenza di ostacoli, capisco di quale materiale sono fatti. Non potendo usare la vista, il mio cervello ha reagito acutizzando altri sensi. Io vedo attraverso l'udito e il tatto innanzitutto. Ma anche con l'olfatto. Il mio corpo è diventato una lastra ricettiva, che cattura tutti gli stimoli esterni. Ecco perché non riesco a stare bene in mezzo ad una folla: mi disorienta, perdo i riferimenti, il troppo rumore mi confonde. Ho bisogno di mantenere il controllo sul mondo che mi circonda. Faccio sogni sonori, ossia - durante il sonno - rielaboro le figure attraverso ciò che il mio udito ha percepito. Con la cecità la mia vita non ha perso valore. Anzi, so quanto essa sia bella, più di chi ignora di possedere il privilegio della salute. Certo, se ci vedessi sarebbe meglio, ma mi piace così com'è. Ho una bella famiglia, degli amici, un lavoro: le stesse cose che hanno le persone "normali"».

 

► 4:10
www.youtube.com/watch?v=Abue6Rc1blg3 May 2010 - 4 min - Uploaded by SaleCuneo
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Présentation

  • : RIABILITAZIONE POST MORTEM DI PADRE GINO BURRESI
  • : Riabilitazione post mortem di Padre Gino Burresi Firma la Petizione https://petizionepubblica.it/pview.aspx?pi=IT85976 "Sono dentro, donna o uomo che vive li nel seno di questa chiesa. Da me amata, desiderata e capita... Sono dentro. Mi manca aria, Aspetto l'alba, Vedo tramonto. La chiesa dei cardinali madri per gioielli, matrigne per l'amore. Ho inciampato e la chiesa non mi sta raccogliendo. Solitudine a me dona, a lei che avevo chiesto Maternità. E l'anima mia, Povera, Riconosce lo sbaglio di aver scelto il dentro e, Vorrei uscire ma dentro dovrò stare, per la madre che non accetta, Il bene del vero che ho scoperto per l'anima mia. Chiesa, Antica e poco nuova, Barca in alto mare, Getta le reti Su chi ti chiede maternità. Madre o matrigna, per me oggi barca in alto mare che teme solo di Affondare! Matrigna." Commento n°1 inviato da Giò il 2/04/2011 alle 14h27sul post: http://nelsegnodizarri.over-blog.org/article-la-chiesa-di-oggi-ci-e-madre-o-matrigna-67251291
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